Ristoranti: meglio se etici e green

A quanto emerge da un’indagine condotta dall’Università Popolare degli studi di Milano, non è solo il cibo a indirizzare le scelte dei consumatori quando si parla di ristoranti, ma anche la sostenibilità e l’eticità. Secondo lo studio, la sostenibilità infatti incide fortemente nella scelta del ristorante per il 71% degli intervistati. Sapere che un locale è attento all’ambiente, utilizzando prodotti biologici, magari a km zero, e che riduce la sua impronta ambientale attraverso l’uso di energia green, lo fa preferire a un ristorante che offre un menu migliore. Ma un altro aspetto importante per i clienti è l’eticità con cui viene trattato il personale. Sapere che un ristoratore tratta in modo corretto i propri collaboratori è motivo di preferenza per circa 2 intervistati su 3 (61%).

I vantaggi per imprenditori e collaboratori

“Un team soddisfatto e appagato lavora meglio e produce di più e si sente maggiormente coinvolto nel business, prendendone più a cuore anche i risultati – commenta Emiliano Citi, Ceo & Founder di RistoBusiness -. E questo genera vantaggi per entrambe le parti, che sono apprezzabili già nel breve periodo: da un lato, l’imprenditore ha entrate più alte, dall’altro, il maggior flusso di cassa garantisce ai collaboratori un lavoro regolare e ben retribuito”.
Un esempio di questo ragionamento è proprio la sede che ospiterà Restaurant for Future, organizzato da RistoBusiness a Fico, il grande parco del cibo a Bologna.
“Mentre in tutta Italia bar e ristoranti sono in grandi difficoltà per i costi da sostenere in questo periodo di crisi, dentro Fico i ristoratori non subiscono il caro bollette grazie al modello energetico virtuoso del parco”, spiega Stefano Cigarini, amministratore delegato di Fico Eataly World.

“Un grande mercato condiviso nel rispetto della sostenibilità”

“Fico è un esempio di sostenibilità non solo per le sue caratteristiche strutturali, ma anche per l’impiego di materiali compostabili da parte di tutti i suoi operatori e per il suo sistema circolare ‘a metro zero’ – aggiunge Stefano Cigarini -: le eccellenze alimentari prodotte dalle fabbriche di Fico vengono infatti utilizzate e somministrate da tutti i ristoratori delle diverse aree: una sorta di grande mercato condiviso nel rispetto della sostenibilità a 360°”.

Il bollino Ape blu

Sono oltre 700 gli imprenditori della ristorazione che saranno presenti a Restaurant for Future, riporta Adnkronos. Tra i relatori, il divulgatore scientifico Luca Mercalli e Federico Quaranta, conduttore radio e tv. Tanti i temi che verranno messi sul tavolo, dalle prospettive future a cosa fare per uscire dalla crisi. Tra le proposte anche l’introduzione del bollino Ape blu, che indica la sostenibilità per i ristoranti, come le stelle Michelin fanno con la qualità della cucina e del servizio. Si parlerà poi anche di rincari energetici e delle materie prime, che stanno costringendo molte attività alla chiusura, della difficoltà nel reperire personale, ma anche della questione del lavoro nero.

Meno auto sulle strade con la mobilità condivisa

Meno auto sulle strade con la mobilità condivisa. Lo rivela una recente indagine condotta dalla società di ridesharing svedese Voi, che ha rilevato un netto calo dell’uso della macchina dove erano presenti altre possibilità di spostamento. Più di un terzo degli utenti Voi afferma di aver ridotto significativamente o completamente l’uso dell’auto. Il sondaggio dell’azienda di ride sharing , vede coinvolti 10.000 riders in tutto il continente. Ha mostrato che il 36% degli utenti di monopattini elettrici afferma di aver fatto un uso ridotto dell’auto. Un altro dato interessante della ricerca, diffusa in occasione della  Giornata internazionale della micromobilità (25 agosto), è che i monopattini elettrici sono utilizzati da ogni fascia di età. In più, il 35% dei riders utilizza esclusivamente monopattini elettrici per il proprio viaggio, mentre oltre il 55% combina viaggi in monopattino elettrico con il trasporto pubblico. Questo è in aumento rispetto al 47% dell’anno scorso.

Anche per spostamenti di lavoro
L’anno scorso più del 40% dei riders ha affermato che uno dei loro scopi principali per guidare uno scooter elettrico Voi era il divertimento. Da allora questo numero è sceso al 30%, con un numero maggiore di riders che affermano di utilizzare i monopattini per viaggiare per eventi di socializzazione (59%) e per recarsi al lavoro o a scuola (48%). Inoltre, anche le persone che vivono in periferia stanno riducendo l’uso dell’auto. Il 60% dei riders che vivono entro 30 minuti di trasporto pubblico dal centro città ha ridotto l’utilizzo dell’auto a causa dei servizi di micromobilità.

Enormi potenzialità di sviluppo

La micromobilità, seppur già ampiamente diffusa, è però solo all’inizio e le potenzialità sono enormi. Come ha affermato Fredrik Hjelm, co-fondatore e CEO di Voi, “Stiamo iniziando a vedere un impatto significativo con un numero maggiore di persone che utilizzano i monopattini elettrici insieme ai trasporti pubblici e persone di tutte le età che trovano un’alternativa flessibile ai viaggi in auto, o addirittura abbandonano completamente l’auto. Anche con oltre 100 milioni di corse e 100 città alle spalle, abbiamo solo scalfito la superficie di ciò che è possibile con la micromobilità condivisa e ci sono vantaggi ancora maggiori per le città europee, la loro aria e la qualità della vita mentre continuiamo in questo viaggio”. 

Acquisti: meno prodotti di marca, più Made in Italy

Aumentano gli acquisti di prodotti Made in Italy e a chilometro zero, mentre crollano quelli di prodotti di marca ed etnici. Rispetto a un anno fa gli italiani adottano comportamenti più consapevoli quando vanno a fare la spesa, e attribuiscono più importanza a salubrità e basso impatto ambientale dei prodotti. Da quanto emerge dal report FragilItalia, elaborato da area studi Legacoop e Ipsos, in base ai risultati di un sondaggio sul tema Consumi e transizione green, a segnare gli incrementi percentuali maggiori sono infatti gli acquisti di prodotti Made in Italy (+28%), e a chilometro zero (+18%), seguiti dai prodotti light e integrali (+4%). Il calo più forte riguarda invece gli acquisti di prodotti di marca (-52%), etnici (-26%), biodinamici (-24%) e a base di soia (-23%).

Prezzo troppo elevato e necessità di risparmiare riducono gli acquisti

Nella classifica dei prodotti più acquistati, in terza posizione si collocano i prodotti ecosostenibili, a basso impatto ambientale, acquistati dal 47% del campione, seguiti dai prodotti light e integrali (44%). Il 74% dichiara invece di aver diminuito gli acquisti di prodotti di marca, il 51% di prodotti biologici, il 49% i prodotti equosolidali, il 45% quelli ecosostenibili. Ma quali sono i motivi che spingono a ridurre gli acquisti? Il prezzo troppo elevato viene indicato per la riduzione di acquisti dei prodotti biologici (50%), di marca (49%), ecosostenibili (48%), biodinamici (47%), a chilometro zero (46%), equo-solidali (44%), e Made in Italy (41%). La necessità di risparmiare spinge invece a ridurre gli acquisti di prodotti Made in Italy (47%), etnici (43%), equosolidali (42%), di marca e vegani (41%), e a chilometro zero (39%).

Più attenzione a salute, riciclo e filiera

Il 58% degli intervistati dichiara che aumenterà l’attenzione per i prodotti con confezioni riciclabili, seguiti da quelli con le indicazioni per salubrità, naturalezza e componenti, dal prezzo calmierato, ed ecologici (56%). Il 52% poi aumenterà l’attenzione alla filiera, preferendo prodotti locali ed ‘etici’, rispettosi dei diritti dei lavoratori, e il 47% preferirà acquistare direttamente dai produttori. Si tratta di orientamenti che presentano un saldo tra aumento e diminuzione degli acquisti, misurato in 54 punti percentuali per l’attenzione alle confezioni riciclabili, 52% a prezzi calmierati e salubrità/naturalezza, 50% all’ecologia dei prodotti, 47% alle filiere locali, 46% all’eticità, e 43% all’acquisto diretto dai produttori.

Driver di scelta e comportamenti di spesa

I driver più significativi per le scelte di acquisto del prossimo futuro sono sostanzialmente coerenti con i comportamenti di spesa consapevoli che si stanno affermando riporta Askanews. L’88% degli intervistati dichiara di utilizzare sacchetti in tessuto o biodegradabili, l’85% di confrontare il prezzo al chilo o al litro dei prodotti, l’83% di stilare la lista della spesa per evitare di acquistare prodotti che non servono, l’80% di acquistare prodotti con confezioni di carta/cartone, il 74% di acquistare, quando possibile, prodotti sfusi, il 73% di acquistare ricariche dei prodotti per la cura della casa per ridurre lo spreco di plastica, il 71% di acquistare prodotti ecosostenibili.

Raggiunto l’accordo sul caricabatterie universale europeo

In base alle nuove regole, dal 2024 si potrà utilizzare un unico caricabatterie per tutti i dispositivi elettronici portatili di piccole e medie dimensioni. La direttiva approvata da Parlamento europeo e Consiglio Ue propone infatti un unico caricatore di forma Usb-C per telefoni cellulari, laptop, tablet, e-reader, cuffie in-ear, fotocamere digitali, cuffie e auricolari, console per videogiochi portatili e altoparlanti portatili ricaricabili tramite cavo cablato. Questi dispositivi dovranno quindi essere dotati di una porta Usb di tipo C, indipendentemente dal loro produttore. E l’ambiente ringrazia: ogni anno vengono spediti in Europa mezzo miliardo di caricabatteria per dispositivi portatili, che generano dalle 11 alle 13mila tonnellate di rifiuti elettronici l’anno. 

I consumatori risparmieranno 250 milioni di euro l’anno

La direttiva, punto di arrivo di un percorso lungo 10 anni, secondo le stime dell’Ue aiuterà i consumatori a risparmiare fino a 250 milioni di euro all’anno sugli acquisti inutili di caricabatterie. A oggi, infatti, i consumatori spendono circa 2,4 miliardi di euro l’anno per acquistare caricabatteria separati non compresi nell’acquisto dei dispositivi. Nel 2020 sono stati venduti negli Stati dell’Unione circa 420 milioni di cellulari e altri dispositivi elettronici portatili. I consumatori possiedono in media circa tre caricabatteria per telefoni cellulari, ma il 38% dichiara di aver incontrato difficoltà almeno una volta nel ricaricare il proprio telefono perché i caricabatteria disponibili erano incompatibili. 

Il caso Apple

I tentativi di imporre un caricabatterie universale in tutto il territorio europeo risalgono al 2009, quando Apple, Samsung, Huawei e Nokia firmarono un accordo volontario per utilizzare uno standard comune. Ma questo approccio volontario non ha raggiunto gli obiettivi di sostenibilità ambientale e risparmio stabiliti inizialmente. Di fatto, l’USB-C è già uno standard condiviso nel panorama dei dispositivi mobili: tutti i principali produttori di smartphone hanno adottato la porta di nuova generazione da qualche anno. Apple è l’unica ad adottare un sistema diverso.
“Dal 2024 se Apple vorrà vendere i suoi dispositivi in Ue dovrà adottare il caricabatterie Usb-C – commenta il relatore del provvedimento al Parlamento europeo, Agius Saliba -. Su questo siamo stati molto chiari anche con loro, siamo stati a Cupertino e gliel’abbiamo detto”.

Interoperabilità delle tecnologie di ricarica wireless

La direttiva sul caricabatterie unico è solo il primo passo, e ha un orizzonte più ampio. Il legislatore europeo punta a ottenere “l’interoperabilità delle tecnologie di ricarica wireless entro il 2026 – chiarisce il relatore Alex Agius Saliba -. Stiamo anche ampliando la portata della proposta aggiungendo altri prodotti, come i computer portatili, che dovranno essere conformi alle nuove regole”. 
La ragione per cui si punta alla interoperabilità delle tecnologie di ricarica wireless è evidente, riporta Agi: sono il futuro. Le aziende tecnologiche si stanno infatti già muovendo verso un sistema universale di ricarica dei dispositivi elettronici: lo standard Qi.
Arrivare a questa data con una strategia comune, che vuol dire standard comuni, è uno degli obiettivi dei deputati alla Commissione.

Wi-Fi: nel 2024 da standard per la comunicazione diventerà sensing

Il futuro del Wi-Fi è sensing. Con lo standard IEEE 802.11bf in arrivo nel 2024 il Wi-Fi non sarà più uno standard per la comunicazione. Il nuovo protocollo che farebbe fare un salto alle applicazioni smart home, l’assistenza alla persona, la sicurezza degli edifici, e l’ospitalità si chiama appunto Wi-Fi sensing. E potrebbe consentire alle reti di diventare più interattive, applicare nuovi livelli di automazione e portare alla luce nuovi servizi per gli utenti in ambiti quali informazioni sulla salute, privacy e relax.  Almeno, stando alle ultime indicazioni della Wireless Broadband Alliance, associazione di imprese nata nel 2003 per promuovere l’interoperabilità tra operatori del settore, che l’ha messo al centro delle sue ultime linee guida. Tra le imprese che fanno parte dell’associazione, AT&T, Orange, LG, Intel ed Ericsson, Airties, Boingo Wireless, Broadcom, BT, Cisco Systems, Comcast, Deutsche Telekom AG, Google, Intel e Viasat.

Una rivoluzione per le persone in tutto il mondo

“Il Wi-Fi sensing – così si legge nel paper Wi-Fi Sensing — Deployment Guidelines della Wireless Broadband Alliance – è una tecnologia nuova e in rapido sviluppo che mira a rivoluzionare il modo in cui le persone utilizzano le reti Wi-Fi in tutto il mondo”.
Secondo Tiago Rodrigues, ceo di Wireless Broadband Alliance, “Il Wi-Fi sensing pone le basi a fornitori di servizi Wi-Fi per espandersi in una varietà di nuovi entusiasmanti mercati, tra cui l’assistenza sanitaria, la sicurezza domestica, l’automazione degli edifici e altro ancora”.

Verso un nuovo paradigma sensoriale

Lo standard Wi-Fi 802.11bf, su cui poggerà questo sviluppo del Wi-Fi, è stato implementato dall’IEEE 802.11bf Task Group di Francesco Restuccia, ingegnere informatico e ricercatore presso la Northeastern University di Boston. In un articolo scientifico lo studioso ha descritto così le caratteristiche della nuova tecnologia di connessione wireless: “Quando lo standard 802.11bf sarà pronto e presentato dall’IEEE a settembre 2024, il Wi-Fi smetterà di essere solo uno standard di comunicazione per diventare un nuovo paradigma sensoriale”.

L’Intelligenza Artificiale ridefinisce il concetto di smart home

Il Wi-Fi sensing, riferisce Agi, sfrutta i segnali Wi-Fi esistenti per rilevare il movimento, tra cui i gesti e i parametri biometrici, cambiando il modo in cui le persone utilizzano le reti Wi-Fi e creando nuovi modelli di business e fonti di ricavo per le imprese. Uno dei passaggi più interessanti del documento fa riferimento all’Intelligenza Artificiale. Questa tecnologia, secondo la visione della Wireless Broadband Alliance, consentirebbe alle reti Wi-Fi di diventare una fonte di intelligenza artificiale per soluzioni preventive, e basate sull’analisi dei dati che potrebbero ridefinire il nostro concetto di smart home.

Il biologico resiste alla crisi: nel 2020 +4% il fatturato della Gdo

Nemmeno il divieto di cenoni e assembramenti durante le feste natalizie quest’anno hanno disincentivato gli acquisti di prodotti alimentari nel reparto bio. Dai dati rilasciati dall’Ismea, l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, nel 2020 la spesa di prodotti alimentari biologici nella Grande distribuzione organizzata ha segnato infatti un più 4% rispetto all’anno precedente. Il biologico sembra quindi resistere alla crisi economica causata dal Covid-19, anche se in un contesto di crescita generalizzata delle vendite alimentari nei canali retail, l’incidenza della spesa bio sul carrello degli italiani resta immutata rispetto all’anno precedente intorno al 3%.

Nelle tre settimane intorno al Natale +6% rispetto al 2019

Più in particolare, secondo le ultime rilevazioni dell’Ismea la spesa per le referenze biologiche nei punti vendita della Gdo ha registrato un aumento del 6% nelle tre settimane intorno al Natale rispetto allo stesso periodo del 2019. Una conferma che le riconosciute valenze espresse dal bio incontrano sempre di più il favore dei consumatori, oggi resi maggiormente consapevoli dello stretto rapporto esistente tra benessere, alimentazione e salute, non solo di se stessi, ma anche dell’intero pianeta.

Il consumo di biologico si concentra soprattutto al Nord

A crescere durante le festività, sottolinea l’Ismea, sono stati soprattutto i vini e gli spumanti bio, che con il 27% in più sullo scorso Natale hanno guadagnato ulteriori quote di rappresentatività nel settore. Molto bene anche per gli ortaggi (+11%) e le carni bio (+15%), mentre il fatturato della frutta certificata nei supermercati registra una lieve flessione del -2%. Secondo l’Ismea poi anche sotto Natale il consumo di biologico si è concentrato soprattutto al Nord Italia (64%), riporta Adnkronos, benché l’Italia centrale abbia mostrato il progresso maggiore (+8%).

Il digitale è un’opportunità anche per il bio

Quanto a poter acquistare online, il digitale è una grande opportunità anche per il bio, perché consente a ogni azienda di superare i confini fisici territoriali per entrare nel mercato globale, e la pandemia lo ha dimostrato. Ciò che forse non abbiamo saputo cogliere, almeno fino a qualche mese fa, è che “I mercati sono conversazioni… Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana”. Le tesi del Clutrain Manifesto, scritto nel “lontano” 1999 da Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger, oggi suonano più attuali che mai, e in un mercato realmente interconesso, è arrivato davvero il momento di metterle in pratica.

I prodotti bio Made in Italy sul mercato USA

Nel 2020 le vendite di prodotti agroalimentari italiani bio sui mercati internazionali hanno raggiunto 2,6 miliardi di euro, mettendo a segno una crescita dell’8% rispetto all’anno precedente, molto più accelerata rispetto all’export agroalimentare (+4%). Secondo partner commerciale per l’Italia nel Food & Beverage, e primo al mondo per import agroalimentare e per il consumo di prodotti bio, gli Stati Uniti rappresentano uno dei mercati più promettenti per il nostro Made in Italy. Lo pensa anche il 26% delle imprese bio intervistate da Nomisma per ICE e Federbio nella survey sul consumatore statunitense, presentata in occasione del lancio del progetto ITA.BIO, la prima piattaforma online di dati e informazioni per l’internazionalizzazione del biologico Made in Italy.

I numeri chiave del bio statunitense

Con 4,6 miliardi di euro di esportazioni F&B italiane nel 2019 (+11% rispetto al 2018) gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di destinazione del nostro agroalimentare. Con un valore di quasi 45 miliardi di euro nel 2019, e una quota di vendite bio sul totale della spesa alimentare che sfiora il 6%, gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato al consumo per prodotti alimentari bio, grazie a oltre il 40% delle vendite mondiali nel 2018.  Alla base della crescita il maggior assortimento di prodotti a marchio bio nella grande distribuzione (5,8% l’incidenza del bio sul totale del carrello nel 2019), ma anche l’ampia consumer base, un diffuso interesse per il cibo salutare (scelto dal 65% dei consumatori) e per la salvaguardia dell’ambiente.

Il Made in Italy per il consumatore a stelle strisce

I consumatori statunitensi mettono l’Italia al primo posto nella classifica “origine di qualità”, sia relativamente ai prodotti alimentari in generale (28% indica “Italia” quando pensa alle eccellenze del F&B) che per quelli a marchio bio (26%). Il 71% degli statunitensi percepisce una qualità superiore del prodotto bio tricolore rispetto a quello di altri Paesi, tanto che più di 8 su 10 sono disposti a pagare un prezzo più alto per avere la garanzia del Made in Italy nel bio.

Un quarto di consumatori dichiara poi  di aver acquistato almeno una volta cibo o bevande italiane a marchio bio, anche se solo poco più della metà (57%) controlla effettivamente in etichetta le informazioni relative alla provenienza degli ingredienti e al luogo di produzione.

I prodotti più promettenti 

Vino, olio extra-vergine e pasta sono le categorie di prodotto per cui i consumatori statunitensi cercano le garanzie di qualità offerte dal marchio bio e quelle su cui l’italianità è un fattore distintivo. Nessun ostacolo per il binomio bio e Made in Italy neanche per il futuro: il 65% si dice interessato all’acquisto di un prodotto italiano a marchio bio se disponibile presso i canali abituali. Due su tre degli attuali non users, infatti, non ha ancora mai provato il nostro bio perché non lo trova in assortimento e il 21% non ne conosce ancora le caratteristiche distintive. 

Covid, che stress: un italiano su tre in ansia per la propria salute

I mesi trascorsi e quelli che stiamo vivendo, a causa della pandemia, hanno aumentato il livello di stress in tantissimi italiani. A causa di stili di vita mutati repentinamente, di bombardamenti mediatici e di un clima generale non esattamente ottimista, sono cresciuti in modo significativo gli stati di ansia dei nostri connazionali. A dichiararlo è una ricerca di Assosalute, Associazione nazionale farmaci di automedicazione, condotta in collaborazione con Human Highway. Per un italiano su tre, indipendentemente dall’età, la fonte di stress principale in questo ultimo anno è stata la salute, dato che arriva al 40% tra le donne. In particolare, è proprio la paura del Covid-19 a creare ansia: si teme di ammalarsi o che il virus colpisca i propri cari.

Le preoccupazioni legate la lavoro e all’isolamento

Tra i motivi i stress, spicca anche la preoccupazione legata al proprio lavoro, che colpisce un italiano su quattro, soprattutto tra gli uomini (28%), con particolare riferimento ai timori per le prospettive future. Infine, il 15% degli intervistati vede nella limitazione alle relazioni sociali la principale causa di stress, problema sentito soprattutto dai più giovani e dagli over 65. Come spiega il prof. Piero Barbanti, Professore di Neurologia all’Università San Raffaele di Roma, “lo stress è una reazione normale dell’organismo che si verifica quando le condizioni esterne a noi cambiano e si determina una situazione inattesa. Esistono due tipi di stress: uno buono o fisiologico, che permette di compiere azioni che ci fanno superare i problemi, e uno cattivo che si ha quando la reazione che determina lo stress non è strettamente legata al fattore scatenante, ma si attiva per un nonnulla e rimane attiva, abbassando la soglia di scatenamento dello stress, con danni di tipo ossidativo e infiammatorio all’organismo nel tempo. I campanelli di allarme sono rappresentati da quei sintomi che non hanno una base organica consistente e sono persistenti: difficoltà a concentrarsi, sensazione di tensione, sonno non riposante e mal di testa, ma anche tensione muscolare, respiro corto e affannato, variazione (o percezione di variazione) del battito cardiaco, alterazione dei quantitativi salivari, bruciore allo stomaco e disturbi legati alla sfera sessuale”.

I sintomi e cosa fare

Otto italiani su 10 hanno sofferto di almeno un disturbo riconducibile allo stress negli ultimi 12 mesi, con una maggiore incidenza tra le donne e un aumento, per entrambi i sessi, di tutti i disturbi legati allo stress rispetto allo scorso anno. Risultano più comuni rispetto al periodo pre-Covid sintomi come nervosismo, irritabilità, disturbi del sonno (più diffusi tra i 25 e i 44 anni), tensioni e dolori muscolari (in particolare negli over 55). Per far fronte alla situazione, i comportamenti più diffusi nel casi di stati lievi sono chiedere consiglio al medico e assumere farmaci di automedicazione, scelte adottate rispettivamente dal 42,7% e dal 41,7% degli intervistati. Seguono la richiesta di consiglio al farmacista (21,6%), ad amici e parenti (16,4%) e il ricorso al web (12,6%). Ricorrere ai farmaci di automedicazione è un’abitudine più femminile, mentre gli uomini tendono a rivolgersi al medico, ad amici e parenti, e al web. Fra i rimedi naturali, sonno, alimentazione sana e attività fisica sono le scelte più praticate.

Aumenta del 5,8% l’importo medio erogato per i mutui

Da gennaio a settembre 2020 l’importo medio erogato dalle banche ai mutuatari è cresciuto del 5,8%, arrivando a 136.630 euro. Nonostante il lockdown, quindi, nei primi nove mesi del 2020 la richiesta di mutui è rimasta solida. I dati raccolti da una ricerca realizzata da Facile.it e Mutui.it confermano che gli italiani hanno ancora voglia di comprare casa, ma al contempo evidenziano “una grande disponibilità da parte delle banche nell’erogare finanziamenti, nonostante la situazione economica generale oggi sia più incerta”, spiega Ivano Cresto, responsabile mutui di Facile.it.

Tassi di interesse in calo rispetto a inizio anno

Un aiuto concreto per gli aspiranti mutuatari è arrivato dal mercato e dagli indici internazionali. Numeri alla mano, i tassi proposti dalle banche alla clientela finale non solo sono rimasti contenuti, ma a partire da maggio, soprattutto quelli fissi, hanno ripreso a scendere, stabilizzandosi a settembre su livelli ancor più bassi rispetto a inizio anno. Secondo le simulazioni di Facile.it per un mutuo al 70% da 126.000 euro per 25 anni i migliori tassi fissi (TAEG) rilevati a settembre variano nel range 0,93% – 1,06% (con una rata compresa tra 463 e 468 euro), mentre a gennaio 2020, per lo stesso finanziamento, i valori oscillavano nel range 1,23% – 1,34% (con una rata tra i 479 e i 486 euro).

Sottoscrivere oggi questa tipologia di mutuo costa quindi circa 6.000 euro in meno rispetto a inizio anno.

A settembre tassi variabili tra lo 0,72% e lo 0,94%

Più stabile la situazione legata ai tassi variabili. Per un mutuo con le stesse caratteristiche (LTV al 70%, finanziamento da 126.000 euro per 25 anni) i migliori tassi variabili rilevati a settembre variano nel range 0,72% – 0,94%, con una rata compresa tra 451 e 462 euro, un valore in linea con quelli di inizio anno. I tassi proposti alla clientela sono addirittura più bassi per finanziamenti con LTV inferiore: per un mutuo ventennale da 100.000 euro al 50%, il miglior tasso (TAEG) disponibile su Facile.it è pari a 0,67% se fisso, e a 0,58% se variabile.

Aumento del peso percentuale delle surroghe

Il dubbio “fisso o variabile” sembra ormai non affliggere più gli aspiranti mutuatari, e poiché è minimo lo scarto tra le due tipologie la quasi totalità di chi ha presentato domanda di finanziamento tra gennaio e settembre (97%) lo ho fatto per un tasso fisso, mentre lo scorso anno era l’87%. I tassi estremamente bassi, uniti alla voglia di risparmiare di molte famiglie, hanno determinato anche un aumento del peso percentuale delle surroghe, che continuano a costituire una fetta importante del mercato. Tra gennaio e settembre più di una richiesta su tre (36%) è stata destinata alla surroga, valore in aumento rispetto allo scorso anno, quando la percentuale era pari al 22%.

Export italiano, il motore della ripartenza

In un contesto avverso, in cui alle incertezze ereditate dal 2019, come Pil e commercio internazionale in rallentamento, escalation protezionistica e instabilità geopolitica, si aggiungono le conseguenze della pandemia Covid-19, le esportazioni italiane sono attese in forte contrazione per quest’anno, con un -11,3%. Si tratta del ritmo di crescita dell’export più basso dal 2009, anno in cui le nostre vendite oltreconfine avevano registrato un -20,9%. Ma l’export italiano tornerà a salire. Questo l’auspicio per una ripresa delle esportazioni italiane post lockdown lanciato con Open, l’ultimo Rapporto Export di Sace, giunto alla sua XIV edizione. Nonostante la situazione, SACE prevede infatti una ripresa già dal 2021 del +9,3%, e una crescita media nei due anni successivi del 5,1%.

In Europa avanzata e Nord America la contrazione più marcata

Secondo queste previsioni, riporta Ansa, nel 2021 le esportazioni italiane di beni arriveranno al 97% circa del valore segnato nel 2019, un recupero pressoché totale dopo la caduta nel 2020. La ripartenza presenterà un certo grado di eterogeneità, tanto per aree geografiche quanto per settori. Europa avanzata e Nord America, che insieme rappresentano oltre il 60% delle vendite estere italiane, quest’anno subiranno la contrazione più marcata (Paesi europei, -11,4%, Usa e Canada, -9,8%). Tra i settori a maggior potenziale, farmaceutica, alimentari e bevande negli Stati Uniti, apparecchiature mediche in Germania, ed energie rinnovabili nel Nord Europa.

In Asia i venti della ripartenza soffiano, ma non senza difficoltà

Reattiva la risalita dell’export italiano di beni verso l’Europa emergente e l’area Csi, dove le nostre vendite riusciranno a raggiungere e superare i livelli del 2019 già l’anno prossimo. Ripresa più celere per il nostro export verso l’area Medio Oriente e Nord Africa, con un recupero pressoché totale già dal prossimo anno (+9,5%). In Asia invece i venti della ripartenza soffiano, ma con non poche difficoltà: le previsioni dell’export nel 2020 sono negative (-10,9%) e riflettono le stime sull’andamento del Pil della regione, che interromperà due decenni di forte crescita, mentre in America Latina, nel 2020 le esportazioni verso le sei più grandi economie caleranno in media dell’8,2% ma nel 2021 è prevista una ripresa media del 7,5%.

Le previsioni in caso di nuovo Great Lockdown

Un primo scenario considera l’eventualità che in risposta a un innalzamento dei casi di Covid- 19, venga istituito un nuovo lockdown su scala globale nei primi mesi del 2021, mentre un secondo scenario alternativo ipotizza che le restrizioni all’attività economica e le misure di distanziamento sociale siano allentate in maniera più lenta e graduale rispetto allo scenario base. In entrambi gli scenari, la necessità di riattivare o mantenere le restrizioni al movimento delle persone e ai processi produttivi accentuerebbe il crollo dell’export italiano, che nel 2020 segnerebbe rispettivamente -12% e -21,2% nei due scenari. Il 2021 non sarebbe più un anno di “rimbalzo”, ma vedrebbe una crescita ancora negativa nel primo scenario, e soltanto lievemente positiva nel secondo, lasciando concretizzarsi il pieno recupero dei valori esportati nel 2019 non prima del 2023.