Conto corrente, quanto mi costi? Sei italiani su dieci non lo sanno

Sei milioni di italiani, titolari di conto corrente, ne ignorano i costi. Per la precisione sono 5 milioni e 900 mila i “distratti”, così come emerge da una recente indagine condotta per Facile.it da mUp Research e Norstat. In percentuale, significa che il 15% dei nostri connazionali ignora le spese necessarie per mantenere il proprio conto presso la banca. Più nel dettaglio, sono soprattutto le donne (16,6% rispetto al 12,5% del campione maschile) le meno attente a questa voce di spesa, in parallelo con i nostri connazionali con unità compresa fra i 45 e i 54 anni (17,3%).

Realtà o percezione?

E’ anche interessante scoprire come  siano percepiti i costi legati al conto corrente, specie in periodo coronavirus. “Se a gennaio 2020, prima dell’esplosione della pandemia, il 17,3% dei rispondenti riteneva il costo del conto corrente una delle voci più pesanti sul budget familiare e addirittura il 17,5% desiderava ridurne il peso, a seguito dell’emergenza sanitaria i valori sono calati, passando, a luglio, 2020, rispettivamente al 16,1% e al 16,9%, segno evidente di come l’attenzione delle famiglie si sia spostata su altre voci di costo” spiega la ricerca. Però esiste anche una percentuale consistente – il 14,6% – che ritiene che ci sia stato un aumento del costo del proprio conto corrente durante il periodo marzo-giugno 2020 rispetto ai mesi precedenti al Covid. Anche in questo caso, probabilmente si tratta di una percezione perché o si è stati tutti più attenti alle uscite oppure si è usato molto di più l’home banking. O ancora, ci si è accorti solo ora di aumenti avvenuti già in passato.

Brontoloni ma fedeli

Un’altra caratteristica italiana che emerge dal rapporto è che i nostri connazionali si lamentano, ma non cambiano. Il 16,9% degli intervistati, infatti, ha detto che vorrebbe risparmiare sul conto corrente, ma solo il 4,8% dei correntisti, pari a 1.998.021 persone, ha dichiarato di aver cambiato conto. Una percentuale bassa forse legata alle oggettive difficoltà di poter fare operazioni e spostamenti in periodi di lockdown. Dalle risposte di chi è riuscito a cambiare conto, si scoprono anche le motivazioni (oltre al costo): più di 1 su 4 (27%) lo ha fatto perché la propria banca non forniva un servizio di home banking (nell’indagine precedente, relativa al periodo gennaio 2019-20, meno del 10% dei rispondenti ha cambiato per questa ragione). Anche se la banca forniva il servizio, però, non sempre lo faceva in maniera tale da soddisfare il cliente, tanto è vero che, sempre fra chi ha cambiato, il 23% ha preso la decisione perché riteneva inadeguato l’home banking offerto dal suo istituto. I più inclini a cambiare conto corrente sono stati gli uomini (5,4% contro il 4,3% delle donne), i giovani con età compresa fra 25 e 34 anni (9,5%) e i residenti nel Nord-Est (5,8%).

App, in Italia crescita record

Se c’è un settore che ha visto una crescita esponenziale durante i mesi di lockdown è proprio quello delle app. In generale, tutto ciò che è legato a Internet – che ci ha permesso di continuare a lavorare, studiare, acquistare anche chiusi in casa – è stato fondamentale e richiesto nella quarantena, ma le app hanno registrato un vero e proprio exploit. A dirlo sono gli analisti di App Annie, secondo cui nel secondo trimestre il tempo di utilizzo delle applicazioni a livello mondiale è aumentato del 40% su base annua. Il picco si è registrato ad aprile, mese in cui si è raggiunta la cifra record di 200 miliardi di ore di uso di applicazioni.

In Italia aumentato il tempo trascorso sulle app

Sempre lo stesso report rivela che da aprile a giugno nel nostro Paese, quindi quando le restrizioni erano già allentate, il tempo passato dai nostri connazionali sulle app ha segnato un incremento del 30% rispetto al periodo ottobre-dicembre 2019, cioè prima della pandemia. Per avere dei parametri con altre Nazioni, in India l’aumento è stato del 35%, negli Stati Uniti del 25%. Un primato si è ottenuto anche nei download, con 35 miliardi di applicazioni scaricate – sempre su scala globale – nel periodo aprile-giugno. I download sono cresciuti del 10% sui dispositivi Android, a quota 25 miliardi, riporta Ansa. Di questi, il 45% sono giochi. Per quanto riguarda il mondo Apple, invece, le app scaricate su iPhone e iPad sono aumentate del 20% toccando i 10 miliardi. Solo tre app su dieci sono videogame.

Cresce anche la spesa

Ma gli utenti non solo hanno scaricato e utilizzato un numero maggiore di app, ma per queste hanno pure investito di più. Tanto che nel secondo trimestre dell’anno gli utilizzatori hanno investito per le app la somma record di 27 miliardi di dollari. Quasi due terzi di queste cifra sono stati destinati a iPhone e iPad, per i quali sono stati spesi 17 miliardi (+15%), mentre sui dispositivi Android sono andati gli altri 10 miliardi (+25%).

TikTok la regina delle app

Il rapporto precisa che tra le app la più gettonata è sicuramente TikTok, che si piazza al primo posto delle applicazioni più scaricate. Segue Zoom, la app per videochat che ha visto esplodere la sua popolarità grazie al telelavoro e alla didattica a distanza. La classifica prosegue con quattro app dell’ecosistema di Mark Zuckerberg (Facebook, WhatsApp, Instagram, Messenger). Al settimo posto si trova Google Meet, altra app per videoriunioni, seguita da Telegram, Snapchat e Netflix.

Durante la pandemia i più giovani hanno giocato meno sul pc

Rispetto al periodo precedente l’inizio della pandemia negli ultimi mesi i ragazzi hanno trascorso meno tempo a giocare al computer. Secondo un report di Kaspersky durante il lockdown i ragazzi sembrano avere perso il loro interesse per i giochi al computer: da marzo a maggio 2020, infatti, il numero di ragazzi impegnati in questa attività è costantemente diminuito rispetto ai primi due mesi dell’anno. Questo perché la pandemia ha costretto i ragazzi a frequentare le lezioni online per poter proseguire la formazione scolastica, così come molti genitori sono stati costretti a lavorare da casa. Una buona occasione per trascorrere molto tempo insieme, e per i genitori di osservare il comportamento dei propri figli.

Dover utilizzare i computer per altre attività ha allontanato i ragazzi dai videogames

“Il calo registrato nell’utilizzo di giochi per PC può essere attribuito alla crescente necessità di dover utilizzare i computer per altre attività. Come ad esempio la didattica a distanza che risulta più semplice da gestire su un PC rispetto a un dispositivo mobile – ha commentato Anna Larkina, web content analysis expert di Kaspersky -. Dalla nostra indagine è emerso che, anche se i ragazzi hanno trascorso una parte significativa del loro tempo in casa, non hanno sentito il bisogno di tuffarsi nei videogiochi”.

PC Windows batte Mac quanto a disponibilità di giochi

Secondo l’indagine di Kaspersky il calo del numero di ragazzi impegnati in attività di gioco su PC risulta più evidente se si guarda ai sistemi Windows, e può essere attribuito sostanzialmente a due fattori. Il primo è che i ragazzi utilizzano più frequentemente PC Windows rispetto ai Mac per giocare ai videogiochi, e il secondo è che la maggior parte dei giochi per computer vengono rilasciati appositamente per Windows. Ad esempio, nei popolari negozi di giochi online come Steam, sono presenti molti meno giochi disponibili per i sistemi macOS.

Monitorare le attività online dei bambini senza invadere il loro spazio personale

In ogni caso, per garantire la sicurezza dei figli durante le sessioni di gioco, Kaspersky raccomanda di incoraggiare i bambini a raccontare se durante l’attività di gioco qualcosa crea loro disagio. È importante ricordare che a volte le emozioni negative servono per migliorare e ottenere ottimi risultati. Ad esempio, se un ragazzo trova difficoltà nell’affrontare un’attività e prova in tutti i modi a ottenere ottimi risultati, questo gli consentirà di migliorare il suo livello di pazienza

Inoltre, trovare il tempo per giocare al computer con i figli contribuirà a rafforzare il rapporto con loro, e ad accrescere la consapevolezza di ciò che i ragazzi fanno nel tempo libero.

Il mondo è sempre più diseguale, anche in Italia si allarga la forbice

Se tra giugno 2018 e giugno 2019 la ricchezza globale risulta in crescita resta comunque fortemente concentrata al vertice della piramide distributiva. L’1% più ricco nel mondo, sotto il profilo patrimoniale, a metà 2019 deteneva più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. E in Italia il 10% più ricco possedeva oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali. In 20 anni, una quota cresciuta del 7,6% a fronte di una riduzione del 36,6% di quella della metà più povera degli italiani. È l’allarme lanciato da Oxfam, l’organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, in Time to care – Avere cura di noi, pubblicato alla vigilia del meeting annuale del World Economic Forum di Davos.

Il patrimonio dell’1% supera quanto detenuto dal 70% più povero

L’anno scorso, inoltre, la quota di ricchezza in possesso dell’1% più ricco degli italiani sotto il profilo patrimoniale superava quanto detenuto dal 70% più povero. A metà 2019 la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità, circa 3,8 miliardi di persone, non sfiorava nemmeno l’1%. Nel mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale. Il patrimonio delle 22 persone più facoltose era superiore alla ricchezza di tutte le donne africane. Se le distanze tra i livelli medi di ricchezza dei Paesi si assottigliano, la disuguaglianza di ricchezza cresce in molti Paesi, riporta Italpress.

Lavorare per tre secoli e mezzo per raggiungere la retribuzione annuale dei più ricchi

“In un mondo in cui il 46% di persone vive con meno di 5,50 dollari al giorno, restano forti le disparità nella distribuzione dei redditi, soprattutto per chi svolge un lavoro – spiega Oxfam -. Con un reddito medio da lavoro pari a 22 dollari al mese nel 2017, un lavoratore collocato nel 10% con retribuzioni più basse, avrebbe dovuto lavorare quasi tre secoli e mezzo per raggiungere la retribuzione annuale media di un lavoratore del top-10% globale. In Italia, la quota del reddito da lavoro del 10% dei lavoratori con retribuzioni più elevate, pari a quasi il 30% del reddito da lavoro totale, superava complessivamente quella della metà dei lavoratori italiani con retribuzioni più basse”, ovvero, il 25,82%.

Una storia di due estremi

 “Il rapporto è la storia di due estremi – commenta Elisa Bacciotti, direttrice delle Campagne di Oxfam Italia -. Dei pochi che vedono le proprie fortune e il potere economico consolidarsi, e dei milioni di persone che non vedono adeguatamente ricompensati i propri sforzi e non beneficiano della crescita che da tempo è tutto fuorché inclusiva. Abbiamo voluto rimettere al centro la dignità del lavoro – continua Bacciotti – poco tutelato e scarsamente retribuito, frammentato o persino non riconosciuto né contabilizzato, come quello di cura, per ridargli il giusto valore”.

Fra i prodotti Made in Italy nel mirino dei dazi Usa formaggi e salumi

Scattano i dazi Usa contro l’Ue, e l’Italia rischia di pagare un conto di oltre un miliardo, che potrebbe colpire per circa la metà dell’importo il settore agroalimentare.

Lo ha reso noto il dipartimento del Commercio statunitense dopo il verdetto della Wto, che attribuisce agli Stati Uniti il diritto di applicare dazi sui prodotti importati dall’Europa. Si tratta di un importo pari a un terzo dei 21 miliardi minacciati inizialmente dagli Stati Uniti, e se saranno mantenute le stesse priorità l’Italia potrebbe essere il paese più colpito dopo la Francia. A pagare il conto più salato rischia di essere proprio l’agroalimentare, con vini, formaggi, salumi, pasta e olio extravergine di oliva.

Il Parmigiano Reggiano rischia un crollo dei consumi stimato fino al 90%

In pericolo, spiega la Coldiretti, sono soprattutto i formaggi. Questo per le pressioni della lobby dell’industria casearia Usa, che ha chiesto di imporre dazi alle importazioni di formaggi europei al fine di favorire l’industria del falso Made in Italy. Quello americano è, dopo la Germania, il secondo mercato estero per Parmigiano Reggiano e Grana Padano, per i quali la tassa passerebbe da 2,15 dollari a 15 dollari al kg, facendo alzare il prezzo al consumo fino a 60 dollari. A un simile aumento, secondo il Consorzio del Parmigiano Reggiano, corrisponderà inevitabilmente un crollo dei consumi stimato dell’80-90% del totale, riporta Askanews.

Colpiti anche mozzarella, olio extravergine, pasta e Prosecco

Un altro esempio è rappresentato dalla Mozzarella di Bufala Campana Dop, il cui costo negli Usa da 41,3 euro al kg salirebbe a 82,6 euro al kg, nel caso fossero applicati dazi pari al 100% del prodotto. Per l’olio extravergine d’oliva il prezzo salirebbe invece da 12,38 euro al litro a 24,77 euro al litro, mentre la pasta aumenterebbe a 3,75 euro al kg rispetto agli attuali 2,75 euro al kg. Per penne e spaghetti il dazio è in media di 6 centesimi al kg.

In pericolo però c’è pure il Prosecco, il vino italiano più esportato all’estero. Il prezzo negli States volerebbe da 10-15 euro a bottiglia a 20-30 euro a bottiglia.

La disputa Usa-Russia è costata al Made in Italy oltre un miliardo in cinque anni

“L’Unione Europea ha appoggiato gli Stati Uniti per le sanzioni alla Russia che, come ritorsione, ha posto l’embargo totale su molti prodotti agroalimentari, come i formaggi”, afferma il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini.

Finora il tutto è costato al Made in Italy oltre un miliardo in cinque anni, ma ora l’Italia rischia di essere anche tra i Paesi più puniti dai dazi Usa per la disputa tra Boeing e Airbus, di fatto un progetto franco tedesco al quale si sono aggiunti Spagna e Gran Bretagna.

Vacanze italiane, un terzo del budget destinato alla tavola

Per gli italiani, mangiare bene è una priorità, anche in vacanza. Lo dimostrano gli ultimi dati di Coldiretti-Ixè che, a seguito di un’analisi, dimostrano che le spese per la tavola rappresentano un terzo del budget destinato alle ferie 2019. Insomma, gran parte del “tesoretto” per le agognate vacanze è stato destinato per consumare pasti in ristoranti, pizzerie, trattorie o agriturismi, ma anche per cibo di strada o specialità enogastronomiche. D’altronde, non è una sorpresa: l’analisi Coldiretti-Ixè rivela che per il 19% dei nostri connazionali è proprio la tavola la principale motivazione di scelta del luogo di villeggiatura, mentre per il 55% è tra i criteri tra cui optare per una meta piuttosto che un’altra.  

I conti in tasca ai vacanzieri

La spesa media degli italiani in vacanza si è attestata a 779 euro, il 5% in più del 2018, e di questi il 30% è stato “bevuto e mangiato”. Il 36% dei vacanzieri  – sottolinea la Coldiretti – ha consumato pasti principalmente al ristorante durante la vacanza, il 12% in agriturismi, anche se uno su tre (il 33%) ha mangiato nelle case di proprietà o in affitto e non manca chi ha scelto paninoteche, fast food, cibi di strada e pranzi al sacco. In ogni caso – precisa la Coldiretti quasi tre italiani su quattro (72%) in vacanza lontano da casa preferiscono consumare prodotti tipici del posto a chilometri zero per conoscere le realtà enogastronomiche del luogo. In sintesi, l’enogastronomia ha un fortissimo appeal, in particolare quella legata alla tradizione locale.

Cibo anche come souvenir

“L’enogastronomia vince anche tra i souvenir” spiega una nota di Coldiretti “con il 42% dei turisti che ha scelto proprio un prodotto tipico da riportare a casa o regalare a parenti e amici come ricordo della propria villeggiatura, magari acquistati in frantoi, malghe, cantine, aziende, agriturismi o mercati degli agricoltori dove è possibile trovare prodotti locali a chilometri zero direttamente dai produttori e ottimizzare il rapporto prezzo/qualità”. Tra le specialità più acquistate vince il vino, davanti a formaggi, salumi e olio extravergine d’oliva.

“L’Italia è il solo Paese al mondo che può contare primati nella qualità, nella sostenibilità ambientale e nella sicurezza della propria produzione agroalimentare che peraltro ha contribuito a mantenere nel tempo un territorio con paesaggi di una bellezza unica” ha affermato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “il buon cibo insieme al turismo e alla  cultura rappresentano le leve strategiche determinanti per un modello produttivo unico che ha vinto puntando sui valori dell’identità, della biodiversità e del legame territoriale”.

Talenti digitali sognano la fuga all’estero

I digital expert italiani sognano di fuggire all’estero, o vorrebbero trovare un impiego in una grande impresa che offra opportunità di formazione, e un buon equilibrio fra lavoro e vita privata. L’Italia si colloca al decimo posto fra le destinazioni più attraenti per i digital expert, col 10% delle preferenze, preceduta da Usa (40%), Germania (31%), Canada (27%) Australia (24%), Regno Unito (24%), Svizzera (15%), Francia (15%), Spagna (12%) e Giappone (11%). Si tratta dei risultati del Report Decoding Digital Talent di Boston Consulting Group, che ha indagato le preferenze su mobilità e lavoro di circa 27mila talenti digitali provenienti da 180 paesi.

Londra la città più ambita

Il 67% dei talenti italiani con elevate competenze ed esperienza nel digitale, come le capacità di data mining, programmazione e sviluppo web, digital marketing, digital design, sviluppo di applicazioni mobile, intelligenza artificiale, lavoro in modalità agile e robotica, vorrebbe trasferirsi all’estero. Mentre più in generale, per i digital experts globali, le città più ambite sono Londra (24%), New York (19%) e Berlino (18%). Per trovare una città italiana, bisogna scendere fino alla 28a posizione, occupata da Roma.

L’identikit del digital expert

Otto talenti digitali su dieci hanno una laurea o titolo di studio superiore, contro il 67% dei non esperti digitali. Le competenze più diffuse sono quelle di data mining (36%), programmazione e sviluppo web (28%), sviluppo di applicazioni mobile (25%) e digital marketing (25%), seguite da digital design (20%), modalità di lavoro agile (18%), robotica e automazione (16%), intelligenza artificiale e machine learning (14%). Poco più di quattro su dieci non ricoprono alcun ruolo manageriale (41%), il 29% appartiene al lower management, il 21% al middle management, e il 9% al top management.

I dieci fattori che determinano la scelta del Paese in cui trasferirsi

Nonostante il digitale sia comunemente associato alle startup, riferisce Adnkronos, queste sono soltanto in quarta posizione nelle preferenze dei talenti digitali, che invece vorrebbero principalmente lavorare in grandi imprese, o come lavoratori in proprio o in una Pmi. I dieci fattori più rilevanti quando si tratta di scegliere il Paese in cui trasferirsi per lavoro sono il buon equilibrio fra lavoro e vita privata, le opportunità di formazione e lavoro, le possibilità di fare carriera, i buoni rapporti con i colleghi, lo stipendio, una buona relazione con il proprio manager, la stabilità finanziaria del datore di lavoro, e la possibilità di svolgere un lavoro interessante. Ma anche sentirsi apprezzati per il proprio lavoro, magari in un ambiente professionale innovativo e creativo.

In Lombardia le città più inquinate d’Italia: sono Brescia, Lodi e Monza

Brutto primato per tre delle città più belle e rappresentative della Lombardia. Brescia, Lodi e Monza risultano infatti essere i capoluoghi più inquinati d’Italia. Ad attribuire loro il “codice rosso” per la qualità dell’aria è Legambiente. Sono infatti loro le “campionesse” di smog, registrando valori della qualità dell’aria peggiori rispetto a tutte le altre città del Belpaese.

Il dossier delle polveri sottili e dell’ozono

I dati sono contenuti nel Dossier annuale di Legambiente sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane che denuncia “il 2018 un anno da codice rosso”. In base alle analisi, nel 2018 in 55 capoluoghi di provincia sono stati superati i limiti giornalieri per le polveri sottili o per l’ozono: Brescia è la peggiore a livello nazionale nera con il maggior numero di giornate fuorilegge, 150 giorni di cui 47 per il Pm10 e 103 per l’ozono, seguita da Lodi con 149 (78 per il Pm10 e 71 per l’ozono), Monza (140), Venezia (139), Alessandria (136), Milano (135), Torino (134), Padova (130), Bergamo e Cremona (127) e Rovigo (121). Male in generale per la pianura padana: tutte le città capoluogo di provincia dell’area (ad eccezione di Cuneo, Novara, Verbania e Belluno) hanno superato almeno uno dei due limiti. La prima città fuori dalla Pianura Padana è Frosinone, con 116 giorni di superamento (83 per il Pm10 e 33 per l’ozono), seguita da Genova con 103 giorni (tutti dovuti al superamento dei limiti dell’ozono), Avellino con 89 (46 per il Pm10 e 43 per l’ozono) e Terni con 86 (rispettivamente 49 e 37 giorni per i due inquinanti). ). In 24 dei 55 capoluoghi – si legge nel Dossier – il limite è stato superato per entrambi i parametri, con la conseguenza diretta per i cittadini di aver respirato aria inquinata per 4 mesi nell’anno.

In Italia mancano strategie antismog

“In Italia continua a pesare enormemente la mancanza di una efficace strategia antismog e il fatto che in questi anni l’emergenza inquinamento atmosferico è stata affrontata in maniera disomogenea ed estemporanea” ha dichiarato Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. Secondo a quanto afferma Zampetti, i piani anti smog con i blocchi parziali per i veicoli più inquinanti non sono serviti a molto, specie nel Nord Italia. E per questo ha sottolineato che: “L’inquinamento atmosferico ad oggi continua ad essere un’emergenza costante nel nostro Paese non più giustificabile con le avverse condizioni meteo-climatiche della Pianura Padana o legate alla sola stagionalità invernale”.