Vacanze italiane, un terzo del budget destinato alla tavola

Per gli italiani, mangiare bene è una priorità, anche in vacanza. Lo dimostrano gli ultimi dati di Coldiretti-Ixè che, a seguito di un’analisi, dimostrano che le spese per la tavola rappresentano un terzo del budget destinato alle ferie 2019. Insomma, gran parte del “tesoretto” per le agognate vacanze è stato destinato per consumare pasti in ristoranti, pizzerie, trattorie o agriturismi, ma anche per cibo di strada o specialità enogastronomiche. D’altronde, non è una sorpresa: l’analisi Coldiretti-Ixè rivela che per il 19% dei nostri connazionali è proprio la tavola la principale motivazione di scelta del luogo di villeggiatura, mentre per il 55% è tra i criteri tra cui optare per una meta piuttosto che un’altra.  

I conti in tasca ai vacanzieri

La spesa media degli italiani in vacanza si è attestata a 779 euro, il 5% in più del 2018, e di questi il 30% è stato “bevuto e mangiato”. Il 36% dei vacanzieri  – sottolinea la Coldiretti – ha consumato pasti principalmente al ristorante durante la vacanza, il 12% in agriturismi, anche se uno su tre (il 33%) ha mangiato nelle case di proprietà o in affitto e non manca chi ha scelto paninoteche, fast food, cibi di strada e pranzi al sacco. In ogni caso – precisa la Coldiretti quasi tre italiani su quattro (72%) in vacanza lontano da casa preferiscono consumare prodotti tipici del posto a chilometri zero per conoscere le realtà enogastronomiche del luogo. In sintesi, l’enogastronomia ha un fortissimo appeal, in particolare quella legata alla tradizione locale.

Cibo anche come souvenir

“L’enogastronomia vince anche tra i souvenir” spiega una nota di Coldiretti “con il 42% dei turisti che ha scelto proprio un prodotto tipico da riportare a casa o regalare a parenti e amici come ricordo della propria villeggiatura, magari acquistati in frantoi, malghe, cantine, aziende, agriturismi o mercati degli agricoltori dove è possibile trovare prodotti locali a chilometri zero direttamente dai produttori e ottimizzare il rapporto prezzo/qualità”. Tra le specialità più acquistate vince il vino, davanti a formaggi, salumi e olio extravergine d’oliva.

“L’Italia è il solo Paese al mondo che può contare primati nella qualità, nella sostenibilità ambientale e nella sicurezza della propria produzione agroalimentare che peraltro ha contribuito a mantenere nel tempo un territorio con paesaggi di una bellezza unica” ha affermato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “il buon cibo insieme al turismo e alla  cultura rappresentano le leve strategiche determinanti per un modello produttivo unico che ha vinto puntando sui valori dell’identità, della biodiversità e del legame territoriale”.

Talenti digitali sognano la fuga all’estero

I digital expert italiani sognano di fuggire all’estero, o vorrebbero trovare un impiego in una grande impresa che offra opportunità di formazione, e un buon equilibrio fra lavoro e vita privata. L’Italia si colloca al decimo posto fra le destinazioni più attraenti per i digital expert, col 10% delle preferenze, preceduta da Usa (40%), Germania (31%), Canada (27%) Australia (24%), Regno Unito (24%), Svizzera (15%), Francia (15%), Spagna (12%) e Giappone (11%). Si tratta dei risultati del Report Decoding Digital Talent di Boston Consulting Group, che ha indagato le preferenze su mobilità e lavoro di circa 27mila talenti digitali provenienti da 180 paesi.

Londra la città più ambita

Il 67% dei talenti italiani con elevate competenze ed esperienza nel digitale, come le capacità di data mining, programmazione e sviluppo web, digital marketing, digital design, sviluppo di applicazioni mobile, intelligenza artificiale, lavoro in modalità agile e robotica, vorrebbe trasferirsi all’estero. Mentre più in generale, per i digital experts globali, le città più ambite sono Londra (24%), New York (19%) e Berlino (18%). Per trovare una città italiana, bisogna scendere fino alla 28a posizione, occupata da Roma.

L’identikit del digital expert

Otto talenti digitali su dieci hanno una laurea o titolo di studio superiore, contro il 67% dei non esperti digitali. Le competenze più diffuse sono quelle di data mining (36%), programmazione e sviluppo web (28%), sviluppo di applicazioni mobile (25%) e digital marketing (25%), seguite da digital design (20%), modalità di lavoro agile (18%), robotica e automazione (16%), intelligenza artificiale e machine learning (14%). Poco più di quattro su dieci non ricoprono alcun ruolo manageriale (41%), il 29% appartiene al lower management, il 21% al middle management, e il 9% al top management.

I dieci fattori che determinano la scelta del Paese in cui trasferirsi

Nonostante il digitale sia comunemente associato alle startup, riferisce Adnkronos, queste sono soltanto in quarta posizione nelle preferenze dei talenti digitali, che invece vorrebbero principalmente lavorare in grandi imprese, o come lavoratori in proprio o in una Pmi. I dieci fattori più rilevanti quando si tratta di scegliere il Paese in cui trasferirsi per lavoro sono il buon equilibrio fra lavoro e vita privata, le opportunità di formazione e lavoro, le possibilità di fare carriera, i buoni rapporti con i colleghi, lo stipendio, una buona relazione con il proprio manager, la stabilità finanziaria del datore di lavoro, e la possibilità di svolgere un lavoro interessante. Ma anche sentirsi apprezzati per il proprio lavoro, magari in un ambiente professionale innovativo e creativo.

Giovane, innovativa e micro: ecco l’identikit delle 10.075 start up italiane

Il 31 marzo 2019 le start up innovative italiane hanno superato quota 10 mila, assestandosi precisamente a 10.075. Si tratta tipicamente di imprese giovani, sia perché sono tutte costituite da meno di 5 anni, come richiesto dalla norma, sia perché presentano almeno un socio di età inferiore a 35 anni nel 42,9% dei casi. Un dato nettamente superiore rispetto al 33,7% registrato tra tutte le neo-imprese non innovative. La conferma arriva dal nuovo report trimestrale del rapporto di monitoraggio dedicato alle start up, realizzato congiuntamente da Mise (Dg per la Politica Industriale) e InfoCamere, con la collaborazione di Unioncamere.

Micro imprese, ma dalle compagini sociali più ampie

Un’altra caratteristica delle start up innovative però è anche la loro appartenenza alla categoria delle micro-imprese. “Solo 4 start up su 10 (4.271) – si legge nel report – hanno almeno un dipendente, e anche queste ultime presentano in media non più di 3,1 addetti ciascuna, contro i 5,6 delle altre imprese di recente costituzione”. Per contro, le start up presentano compagini sociali più ampie, In media infatti ogni start up conta 4,5 soci, contro i 2,1 riscontrati tra le altre nuove imprese comparabili. E anche i dati di bilancio delle start up innovative lasciano intendere le ridotte dimensioni delle imprese iscritte: il fatturato medio, ad esempio, supera appena i 150 mila euro.

Una “popolazione” soggetta a un costante turnover

Va tuttavia tenuto conto del fatto che la popolazione delle start up innovative è soggetta a un turnover costante. A fronte del continuo flusso in entrata di nuove imprese di recente costituzione, si registra infatti la progressiva fuoriuscita per sopraggiunti limiti di età, pari appunto a 5 anni, o dimensionali,, con 5 milioni di fatturato annuo, delle imprese che presentano le performance economiche migliori.

Età media dell’innovazione: 3 anni e 11 mesi

Eclatante in questo senso, riporta una notizia Adnkronos, è l’età media delle 178 start up innovative che al 31 marzo 2019 riportano un fatturato annuo superiore a 1 milione di euro, che corrisponde a 3 anni e 11 mesi. Il valore complessivo espresso da questa nicchia, pari a ben 341 milioni di euro, rappresenta quasi il 40% del fatturato ascrivibile all’intera popolazione delle start up. Per contro, solo il 57% delle start up attualmente iscritte ha già depositato un bilancio. Un dato a riprova della prevalenza della fascia di imprese di recentissima costituzione.

Posto fisso addio, il lavoro flessibile è il nuovo sogno degli italiani

Fino a qualche tempo fa, le principali richieste di chi era alla ricerca di un nuovo lavoro riguardavano la sicurezza di poter contare su “un posto fisso”, salari alti, ferie pagate, e un ufficio tutto per sé. Negli ultimi anni però il mondo della ricerca e della selezione del personale è mutato, e oggi tra le principali esigenze dei lavoratori italiani vi è la flessibilità, un valore che fino a qualche anno fa riceveva ben poche preferenze. I dipendenti italiani quindi non hanno più dubbi: secondo lo studio condotto dalla Global Workspace Survey di IWG l’86% degli intervistati afferma di privilegiare un’offerta di lavoro che contempli la flessibilità di fronte a un’altra similare, ma senza quest’ultima caratteristica.

Le nuove tecnologie incentivano il lavoro flessibile

Ma cosa si intende con lavoro flessibile? “Con l’espressione ‘lavoro flessibile’ si indica la modalità di lavoro che permette ai dipendenti di adattare parzialmente la giornata lavorativa ai propri impegni personali”, spiega Carola Adami, Ceo di Adami & Associati, società di ricerca e selezione di personale qualificato. Godere di una certa flessibilità significa poter lavorare all’infuori dei tipici orari di lavoro, e lontano dalla sede aziendale, attività che inoltre vengono incentivate dalle nuove tecnologie.

Quali sono i vantaggi per le aziende?

Di certo la flessibilità è un aspetto che può migliorare concretamente la quotidianità dei lavoratori, ma quali sono i vantaggi per le aziende? “Un dipendente che può decidere come organizzare la propria giornata lavorativa è, in linea di massima, un dipendente più felice, e quindi più motivato e più produttivo”, continua Adami. Molte indagini dimostrano infatti che introdurre maggiore flessibilità a livello aziendale porta a un aumento della produzione e dei profitti. Ma secondo il 73% degli intervistati dallo studio Global Workspace Survey di IWG l’implementazione di politiche volte alla flessibilità viene rallentata  dalla mentalità tradizionalista dei vertici aziendali. A sorpresa, quindi, a frenare la flessibilità, sarebbero proprio le imprese.

Lavorare lontano dalla sede aziendale per almeno metà delle ore settimanali

Nonostante rispetto ad altri Paesi l’Italia continui a essere piuttosto perplessa nei confronti del lavoro flessibile, per il 70% degli intervistati il lavoro flessibile rappresenta la normalità, e più del 50% afferma di lavorare lontano dalla sede aziendale per almeno metà delle ore settimanali. Inoltre, l’86% dichiara di lavorare in aziende che hanno già adottato politiche di flessibilità o che sono in procinto di farlo. Il futuro, dunque, sembra tracciato. Le aziende che intendono attirare i migliori talenti accanto all’offerta di posizioni di prestigio e alla possibilità di avanzamento di carriera dovrebbero considerare anche la predisposizione di una sempre maggiore flessibilità.

Case vacanze, Italia da bronzo: è il terzo mercato per Airbnb

Il Belpaese piace anche in versione Airbnb.”L’Italia rappresenta il terzo mercato al mondo dopo Usa e Francia per numero di annunci. A oggi siamo intorno a 400mila, di cui il 75% inerenti a case intere e il 25% a stanze singole. Lo scorso anno 9 milioni 600mila persone hanno scelto Airbnb per soggiornare in Italia. Nel 2016 il guadagno complessivo degli host italiani è stato di 621 milioni di euro”: sono le parole dell’amministratore delegato di Airbnb Italia, Matteo Frigerio, espresse in un’intervista ad Adnkronos. “Dal 2008, anno in cui è stata fondata, oltre 500 milioni di ospiti hanno scelto di viaggiare nel mondo soggiornando con Airbnb, con ben 23 milioni di viaggiatori accolti in Italia nel solo triennio 2016-2018”. Prosegue: “Oggi, sei viaggiatori al secondo effettuano un check in su Airbnb, e in tutto il mondo sono presenti oltre sei milioni di annunci in 191 Paesi e 81.000 città. Dal 2008 gli host hanno guadagnato, in totale, 65 miliardi di dollari, i superhost 8,94 miliardi, di cui 1,47 solo nel 2018”.

“Esperienze speciali” per un turismo peculiare

A detta dell’ad, non c’è sovrapposizione con l’offerta turistica tradizionale. “Chi sceglie Airbnb è interessato a vivere esperienze speciali e di qualità nella città di cui diventa, diversamente dall’escursionista giornaliero e dai passeggeri dei torpedoni del turismo di massa, un ‘cittadino temporaneo’. Airbnb rappresenta una soluzione al mordi e fuggi” dice Frigerio. E ancora: “Crediamo che i viaggiatori che optano per il soggiorno in casa e quelli che scelgono l’hotel siano pubblici diversi e perciò completamente compatibili. Senza contare che in alcune località, remote o semplicemente al di fuori dei circuiti turistici tradizionali, il problema non si pone nemmeno: la ricettività tradizionale non è presente, e anche con la crescita degli arrivi internazionali e la progressiva dispersione dei flussi l’investimento immobiliare per un nuovo hotel non si giustificherebbe”.

L’identikit dell’ospite

Interessante è anche scoprire il profilo di chi sceglie questa soluzione, sia per turismo che per lavoro. “Il viaggiatore si sposta in piccoli gruppi (2,6 persone di media), soggiorna più a lungo degli ospiti della ricettività tradizionale (3,6 nel 2017 la media del numero di notti in Italia, contro il 2,95 della ricettività tradizionale), fa acquisti presso esercizi locali e in particolare in quelli del quartiere dove soggiorna” racconta l’ad. “Il 70% dei viaggiatori di Airbnb appartiene alla generazione dei millennial, mentre per quanto riguarda gli host (chi ospita) potremmo dire che l’home sharing non ha età: è la fascia over 60 a crescere di più fra chi affitta casa. Un segmento importante dell’offerta è adatto anche per chi viaggia per lavoro. L’incidenza del business travel è in costante crescita e ha già raggiunto la doppia cifra. Lo scorso settembre oltre 700mila aziende avevano utilizzato Airbnb for Work per le trasferte dei loro dipendenti”.

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Un lavoratore su cinque guadagna meno di 9 euro all’ora

La stima arriva dall’Inps: il 22% dei lavoratori dipendenti delle aziende private ha una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi, quasi un terzo al Sud e nelle isole, al Nord il 19%. Una “paga” pari alla soglia individuata da uno dei disegni di legge sul salario minimo in discussione al Senato.  Il 9% dei lavoratori, inoltre, è al di sotto degli 8 euro orari lordi, mentre il 40% prende meno di 10 euro lordi l’ora. Dei due disegni di legge sull’istituzione del salario minimo orario il primo prevede una misura a nove euro netti, il secondo a nove euro lordi. Secondo l’Istat l’aumento più significativo potrebbe coinvolgere i lavoratori dei servizi, gli under 29 anni e gli apprendisti.

Per il lavoro domestico salario orario inferiore a 9 euro

Quasi tutti i livelli di inquadramento del lavoro domestico hanno un salario orario inferiore a 9 euro. Lo rileva l’Inps in una audizione alla Commissione lavoro del Senato sul salario minimo, chiedendo nell’eventuale introduzione di una soglia di salario minimo di tenere in considerazione “le oggettive caratteristiche del settore anche allo scopo di evitare il rischio di pericolose involuzioni che possono portare all’espansione del lavoro irregolare”. Tra il 2012 e il 2017, riporta Ansa, il numero dei lavoratori regolari nel settore è infatti diminuito del 15% passando da 1,01 milioni a 864.526 unità.

Incremento di retribuzione per 2,9 milioni di lavoratori

Fissando la soglia del salario minimo a 9 euro lordi l’ora ci sarebbero 2,9 milioni di lavoratori che avrebbero un incremento medio annuo di retribuzione di 1.073 euro. L’Istat spiega che sarebbe coinvolto il 21% dei lavoratori dipendenti con un aumento stimato del monte salari complessivo di 3,2 miliardi.

Secondo il presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) Stefano Sacchi l’istituzione della misura potrebbe produrre un aumento per il 25% dei dipendenti delle imprese fino a dieci occupati, e del 3% di quelli delle imprese più grandi, riferisce il Manifesto.

Per le aziende l’introduzione del salario minimo comporterebbe “un aggravio di costo”

Un salario minimo lordo di nove euro produrrebbe un aumento di retribuzione del 14,6% con un costo di 4,1 miliardi di euro. Se, invece, la soglia fosse fissata a 9 euro netti l’aumento interesserebbe oltre la metà dei lavoratori attivi (il 52,6%) con un costo di 34,1 miliardi. Sul fronte dell’aziende invece, riporta la Repubblica, l’introduzione comporterebbe “un aggravio di costo che se non trasferito sui prezzi porterebbe a una compressione di circa l’1,2% del margine operativo lordo”.

Congiuntura positiva per industria e artigianato manifatturiero a Milano

Il 2018 si è chiuso in positivo per l’industria manifatturiera e l’artigianato di Milano, Monza Brianza e Lodi. Nel quarto trimestre dell’anno scorso le imprese milanesi registrano infatti ancora una crescita a livello tendenziale per produzione, fatturato e ordini. In particolare, a Milano bene la produzione (+2,6%) e accelerano gli ordini (+3,8%), Monza Brianza bene fatturato e ordini esteri (+6,2%), e a Lodi crescono gli ordini trainati dal mercato domestico (+9,6%). È quanto emerge da un’anticipazione dei dati dal Monitor congiunturale del quarto trimestre 2018 del Servizio Studi della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi, presentata in occasione della divulgazione dei risultati dell’analisi congiunturale dell’industria e dell’artigianato manifatturieri di Unioncamere Lombardia.

L’industria milanese tra ottobre e dicembre 2018

Nel quarto trimestre del 2018 la produzione industriale manifatturiera a Milano registra un +2,6% su base annua, mentre l’incremento del fatturato totale si attesta a un +1,8%, quello estero del +2,7%, e quello  interno del +1,3%.

Gli ordini totali registrano una variazione in un anno del +3,8%, trainati dalla domanda interna (+4%), ma anche da quella estera (+3,4%). Aspettative di tenuta per il primo trimestre 2019: il 59,9% degli operatori si attende infatti una stabilità della produzione nel prossimo trimestre.

L’industria di Monza e Brianza e Lodi

Nello stesso periodo la produzione industriale manifatturiera di Monza e Brianza registra una variazione tendenziale del +1,8%. Cresce il fatturato su base annua (+4,4%), trainato da un buon andamento, soprattutto, del fatturato estero (+9,9%) e del fatturato interno (+1,3%). Gli ordini totali crescono invece del +2,2%, e sempre su base annua l’espansione della domanda estera (+6,2%) contrasta con la dinamica degli ordini interni (0,0%). Nel quarto trimestre 2018 l’industria manifatturiera lodigiana registra per la produzione una variazione positiva del +3,3%, mentre la dinamica tendenziale degli ordini totali registra una crescita del +8,3%, in particolare la domanda interna si attesta a +9,6% e la domanda estera +5,2%. Il fatturato registra un +6,6% rispetto allo stesso periodo del 2017, quello interno +7,0%, e quello estero +5,7%.

L’artigianato manifatturiero a Milano, Monza Brianza e Lodi

Da ottobre a dicembre 2018 a Milano la produzione dell’artigianato manifatturiero cresce del +0,4% in un anno, mentre rallentano fatturato (-0,1%) e ordini (-2,1%). Buon andamento per  la Brianza, che segna un +0,7% per gli ordini totali su base annua, e un +1,9% sia per fatturato che per produzione.

A Lodi fatturato e produzione crescono entrambi del +0,7% in un anno. Va un po’ meno bene per gli ordini, che a Lodi rallentano del -0,1%.

In Lombardia le città più inquinate d’Italia: sono Brescia, Lodi e Monza

Brutto primato per tre delle città più belle e rappresentative della Lombardia. Brescia, Lodi e Monza risultano infatti essere i capoluoghi più inquinati d’Italia. Ad attribuire loro il “codice rosso” per la qualità dell’aria è Legambiente. Sono infatti loro le “campionesse” di smog, registrando valori della qualità dell’aria peggiori rispetto a tutte le altre città del Belpaese.

Il dossier delle polveri sottili e dell’ozono

I dati sono contenuti nel Dossier annuale di Legambiente sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane che denuncia “il 2018 un anno da codice rosso”. In base alle analisi, nel 2018 in 55 capoluoghi di provincia sono stati superati i limiti giornalieri per le polveri sottili o per l’ozono: Brescia è la peggiore a livello nazionale nera con il maggior numero di giornate fuorilegge, 150 giorni di cui 47 per il Pm10 e 103 per l’ozono, seguita da Lodi con 149 (78 per il Pm10 e 71 per l’ozono), Monza (140), Venezia (139), Alessandria (136), Milano (135), Torino (134), Padova (130), Bergamo e Cremona (127) e Rovigo (121). Male in generale per la pianura padana: tutte le città capoluogo di provincia dell’area (ad eccezione di Cuneo, Novara, Verbania e Belluno) hanno superato almeno uno dei due limiti. La prima città fuori dalla Pianura Padana è Frosinone, con 116 giorni di superamento (83 per il Pm10 e 33 per l’ozono), seguita da Genova con 103 giorni (tutti dovuti al superamento dei limiti dell’ozono), Avellino con 89 (46 per il Pm10 e 43 per l’ozono) e Terni con 86 (rispettivamente 49 e 37 giorni per i due inquinanti). ). In 24 dei 55 capoluoghi – si legge nel Dossier – il limite è stato superato per entrambi i parametri, con la conseguenza diretta per i cittadini di aver respirato aria inquinata per 4 mesi nell’anno.

In Italia mancano strategie antismog

“In Italia continua a pesare enormemente la mancanza di una efficace strategia antismog e il fatto che in questi anni l’emergenza inquinamento atmosferico è stata affrontata in maniera disomogenea ed estemporanea” ha dichiarato Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. Secondo a quanto afferma Zampetti, i piani anti smog con i blocchi parziali per i veicoli più inquinanti non sono serviti a molto, specie nel Nord Italia. E per questo ha sottolineato che: “L’inquinamento atmosferico ad oggi continua ad essere un’emergenza costante nel nostro Paese non più giustificabile con le avverse condizioni meteo-climatiche della Pianura Padana o legate alla sola stagionalità invernale”.

Nel terzo trimestre 2018 cala l’occupazione

Rispetto al secondo trimestre del 2018 durante i tre mesi estivi dell’anno si osserva un rallentamento dell’occupazione. Gli effetti di trascinamento consentono comunque di registrare ancora una crescita a livello tendenziale, seppure in calo rispetto al recente passato. È quanto emerge dalla Nota congiunta di Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal, sulle tendenze dell’occupazione relativa al terzo trimestre 2018.

Le dinamiche del mercato del lavoro risultano allineate a quelle del Pil, e contraddistinte da un lieve calo congiunturale (-0,1%) dopo quattordici trimestri di espansione, e da un aumento su base annua (+0,7%), rallentato in confronto al periodo precedente.

Prosegue la crescita tendenziale dei lavoratori dipendenti

Il tasso di occupazione destagionalizzato risulta pari al 58,7%, stabile in confronto al trimestre precedente. L’indicatore supera di oltre tre punti il valore minimo del terzo trimestre 2013 (55,4%) tornando quindi ai livelli pre-crisi e sfiorando il livello massimo del secondo trimestre del 2008 (58,8%).

Prosegue la crescita tendenziale dell’occupazione dipendente, riporta Italpress, in termini sia di occupati (+0,5%, Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro) sia di posizioni lavorative riferite ai settori dell’industria e dei servizi (+2,1%, Istat, Rilevazione Oros).

Dopo l’aumento dello scorso trimestre, nella Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat il lavoro indipendente torna a diminuire a livello congiunturale (-28 mila occupati, -0,5%) mentre continua ad aumentare in termini tendenziali (+53 mila occupati, +1%).

Crescono le posizioni a tempo indeterminato

L’aumento congiunturale delle posizioni lavorative dipendenti riguarda le posizioni a tempo indeterminato (+42 mila) mentre quelle a tempo determinato si riducono lievemente (-27 mila). Se le prime continuano a crescere in virtù delle trasformazioni (+114 mila), le posizioni a termine si riducono per la prima volta dopo una crescita ininterrotta dal secondo trimestre 2016.

Secondo i dati tendenziali l’incidenza delle attivazioni a tempo determinato è pari all’80,3%, in aumento rispetto al 79,0% registrato nel terzo trimestre del 2017. In termini di saldi tra attivazioni e cessazioni su base annua l’aumento del lavoro dipendente a tempo determinato continua per il decimo trimestre consecutivo (+256 mila) mentre si registra la crescita del tempo indeterminato (+118 mila posizioni).

Tra i giovani aumentano i disoccupati

Tra i giovani di 15-34 anni torna a diminuire l’occupazione, in termini sia congiunturali sia tendenziali. Nel terzo trimestre 2018 prosegue poi l’aumento tendenziale del numero dei lavoratori a chiamata o intermittenti secondo la fonte Inps-Uniemens (+16 mila unità), anche se rallenta ulteriormente il tasso di crescita (+7,2% nel terzo trimestre 2018).

Analogamente prosegue l’aumento tendenziale del numero dei lavoratori in somministrazione, mentre il numero dei lavoratori impiegati con il Contratto di Prestazione Occasionale e quelli pagati con i titoli del Libretto Famiglia, hanno raggiunto rispettivamente le 20 mila e le 7 mila unità nel terzo trimestre 2018.

A sette aziende su 10 manca il leader giusto

Il 73% delle aziende è guidato da leader che non hanno gli strumenti per gestire le sfide del futuro, tanto che i responsabili delle risorse umane, se ne avessero l’opportunità, sarebbero pronti a sostituire il team di leader senior. A rilevarlo è una ricerca condotta da Shl, multinazionale della talent innovation, che aiuta le aziende a comprendere meglio il potenziale dei dipendenti per migliorare i propri risultati. La sfida nella sfida, quindi, è scegliere leader adeguati. Ogni organizzazione, se utilizzasse modelli di business intelligence adeguati, potrebbe quindi triplicare la capacità di predire la performance dei propri leader. E trovare il leader giusto per il futuro.

Se la fiducia nei leader emergenti è in declino…

Dalla ricerca, che ha coinvolto circa 9.000 leader e 85 aziende a livello globale, emerge che nonostante gli investimenti sulla leadership incidano per un quarto del budget annuale di Hr, i programmi non generano un miglioramento delle performance lavorative. Il 50% dei leader in nuovi ruoli non ottiene gli obiettivi, e i due terzi non si adattano abbastanza rapidamente da raggiungerli. E la fiducia nei leader emergenti è in declino, riporta Fotogramma.

Del resto, l’ambiente lavorativo è diventato molto più complesso: il 50% dei leader deve ricevere l’approvazione da più persone per arrivare a una decisione e il 52% impiega più tempo per prenderla. Inoltre, il 78% deve lavorare con più persone per portare a termine il lavoro quotidiano, il 61% gestisce team geograficamente sparsi, il 70% deve adattarsi a frequenti cambiamenti organizzativi, e il 63% dipende di più dagli altri per raggiungere gli obiettivi.

…la colpa è anche delle organizzazioni

Se i leader faticano a fronteggiare la maggiore complessità e il cambiamento le organizzazioni non hanno sviluppato nuove strategie di leadership che riflettano meglio il nuovo contesto lavorativo. I piani di successione, peraltro, coprono solo il 25% dei ruoli vacanti. Eppure, la maggior parte delle aziende si aspetta che più del 40% dei propri ruoli cambi significativamente entro 5 anni.

Tale complessità richiede, quindi, una trasformazione radicale del modello di leadership, da un approccio generico e universale a uno più flessibile e specifico.

Focalizzarsi sui profili appropriati al contesto

L’approccio tradizionale prevede che i leader siano selezionati in base a un modello di 8-12 competenze standard, nella convinzione che esista un profilo unico le cui capacità di leadership, considerate universali, portino a una performance efficace in qualsiasi ruolo. Le organizzazioni dovrebbero, invece, focalizzarsi sui profili appropriati al contesto, e basare le decisioni sui dati piuttosto che sull’esperienza e sull’intuizione.

Per aiutare le aziende a scegliere il leader giusto Shl ha lanciato un modello, Leader Edge, derivato psicometricamente, ovvero in grado di collegare i profili di leadership con i contesti organizzativi. Si tratta di uno strumento di business intelligence che aumenta la capacità di predire la performance dei propri leader, associandoli al contesto per cui sono più adatti.