Smart working e disparità di genere. Il lavoro a casa va ripensato

Prima dell’emergenza Covid in Italia lavoravano da remoto circa 500 mila persone. Ma in queste settimane di lockdown si stimano siano state più di 8 milioni. Se il 60% dei lavoratori vuole proseguire con lo smart working anche dopo la fase di emergenza il 22% preferisce interrompere questa esperienza, e le donne sono le meno convinte. Per loro, infatti, lo smart working è più pesante, alienante, stressante e porta all’aumento dei carichi familiari. Secondo l’indagine della Cgil/Fondazione Di Vittorio sullo Smart working, però, quello sperimentato durante l’emergenza non è lo smart working ex Legge n.81/2017, né telelavoro, ma nella maggior parte dei casi del mero trasferimento a casa dell’attività svolta in ufficio. Si tratta, in pratica, di un home working.

L’82% ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza

L’82% degli intervistati ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza, e di questi il 31,5% avrebbe desiderato farlo anche prima. Il 18% invece ha cominciato prima, l’8% per scelta personale, soprattutto gli uomini (+5% rispetto alle donne) e nel settore privato (+4% rispetto al pubblico). Nel 5% dei casi ciò è avvenuto per scelta del datore, e in un altro 5% per esigenze di conciliazione. Nel 37% dei casi, lo smart working è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro, e nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro, mentre nel 27% in modo negoziato attraverso intervento del sindacato, riporta Askanews.

Un semplice trasferimento a casa dell’attività svolta in ufficio

Dall’indagine risulta inoltre che la stragrande maggioranza è “precipitata” nel lavoro smart senza alcuna riflessione su organizzazione del lavoro e degli spazi e senza adeguata preparazione, con evidenti differenze di genere. Dalle 6.170 persone intervistate emerge, infatti, che si è assistito a un semplice trasferimento a casa dell’attività svolta fino a qualche giorno prima in ufficio. Il 45% dei casi ha dichiarato che il lavoro non è cambiato, è cambiato parzialmente per il 32%, e solo totalmente per il 23%. Inoltre, nel lavorare da casa si presta poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione (56%), gli spazi sono stati ricavati (50%), oppure si assiste a un nomadismo casalingo (19%).

Per essere un’esperienza positiva va contrattato con i sindacati

“Lo smart working non può essere una forma di conciliazione – commenta Susanna Camusso, la responsabile Politiche di genere Cgil -. Le donne sono più penalizzate e discriminate, sia sul fronte relazionale sia su quello prettamente professionale. Servono regole per renderlo un lavoro effettivamente smart e non una trasposizione di un lavoro fordista dentro le mura di casa”.

Insomma, “dopo questa esperienza dobbiamo porci il problema di fare in modo che nei nuovi contratti collettivi e aziendali ci siano elementi che permettano di affrontare i bisogni di chi lavora in smart working”, aggiunge il segretario generale Cgil Maurizio Landini. Lo smart working per essere un’esperienza soddisfacente per lavoratrici e lavoratori va organizzato e contrattato con le organizzazioni sindacali.