La #DopEconomy italiana vale 16,2 miliardi di euro

La #DopEconomy italiana supera i 16,2 miliardi di euro di valore alla produzione, e mette a segno una crescita del 6% in un anno, pari un miliardo di euro in più. Quanto all’export, grazie al lavoro di oltre 180 mila operatori e l’impegno dei 285 Consorzi di tutela riconosciuti sul territorio, sfonda la soglia dei 9 miliardi di euro, in aumento del 2,5% rispetto al 2017. Il sistema della #DopEconomy rappresenta il 20% del fatturato complessivo dell’agroalimentare, che registra una crescita trainata dal comparto vino (+7,9%). Ma a guidare la classifica dei prodotti con più valore alla produzione sono i formaggi, con 4,1 miliardi, dove svettano Parmigiano Reggiano e Grana Padano, seguiti da Prosciutto di Parma, Mozzarella di Bufala Campana, Aceto Balsamico di Modena Igp e Gorgonzola Dop.

Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia sul podio dell’Igp

La conferma arriva dal 17° Rapporto Ismea-Qualivita 2019, che analizza i dati 2018 relativi alle oltre 800 Indicazioni Geografiche del settore Food e Wine Dop e Igp, il driver fondamentale per i distretti agroalimentari. Secondo il Rapporto tutte le province italiane risentono dell’impatto economico positivo generato dalle filiere delle Indicazioni geografiche agroalimentari e vitivinicole, ma la concentrazione del valore è particolarmente forte in alcune realtà. In cinque regioni su venti si supera infatti 1 miliardo di euro di valore, riporta Ansa. In testa il Veneto, che si conferma la prima regione, con 3,90 miliardi di euro, seguita da Emilia-Romagna (3,41 miliardi) e Lombardia (1,96 miliardi). Con oltre 1 miliardo di euro di valore, poi, si posizionano anche Piemonte e Toscana.

Il settore Vino trainato da Treviso e Verona

Nel settore Food a guidare la classifica sono Emilia-Romagna e Lombardia, con la Campania che conferma buoni risultati. Nel Vino, invece, è il Veneto a fare da traino, seguito da Toscana e Piemonte, quest’ultimo però in calo. Buoni trend poi soprattutto per Puglia, Sicilia ed Emilia-Romagna. Treviso, Parma e Verona guidano la classifica provinciale, con valori superiori al miliardo di euro. Ma se nel Food si affermano città dell’Emilia-Romagna e della Lombardia, in compagnia anche di Udine, Caserta e Bolzano, nel Vino trainano Treviso e Verona, seguite da Cuneo e Siena (in calo).

Un elemento strategico per la competitività e il posizionamento globale del Made in Italy

“I prodotti Dop e Igp sono un elemento strategico per la competitività e il posizionamento globale del Made in Italy. L’Italia conferma la sua leadership europea nei prodotti di qualità certificata”, commenta la ministra delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Teresa Bellanova.

I dati certificano infatti il peso di Dop e Igp nell’economia agricola italiana. Si tratta di prodotti che avendo le loro radici nei territori, “sono la nostra identità e per questo sono così apprezzati e imitati nel mondo – aggiunge Bellanova -. Un legame proficuo che contraddistingue un’esperienza tutta italiana, grazie anche al ruolo del nostro ministero che può essere un modello di riferimento per tutta l’Unione europea”.

Quanto costa l’inquinamento atmosferico? 8 miliardi di dollari al giorno

Quattro milioni e mezzo di morti premature stimate ogni anno, e un costo di 2.900 miliardi di dollari, equivalenti al 3,3% del Pil mondiale, pari a 8 miliardi di dollari al giorno. Queste le stime del prezzo pagato annualmente dal Pianeta a causa dell’inquinamento atmosferico derivante dalla combustione di combustibili fossili. Una situazione critica anche per l’Italia, dove sembra che il costo dell’inquinamento atmosferico da carbone, petrolio e gas sia ogni anno di circa 56mila morti premature e 61 miliardi di dollari. È quanto emerge da Aria tossica: il costo dei combustibili fossili, il rapporto di Greenpeace Southeast Asia e Crea (Centre for Research on Energy and Clean Air) per valutare il costo globale dell’inquinamento atmosferico legato a questo tipo di combustibili.

Una minaccia globale sempre più grave

L’inquinamento atmosferico è una minaccia globale sempre più grave, ma sono sempre di più le soluzioni disponibili e accessibili, spiega Greenpeace. E molte delle soluzioni all’inquinamento atmosferico sono anche soluzioni ai cambiamenti climatici. L’utilizzo di energia rinnovabile e i sistemi di trasporto che fanno affidamento su energia pulita non solo riducono l’inquinamento atmosferico, ma hanno anche un ruolo centrale nel mantenere l’aumento della temperatura globale entro la soglia di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. Il limite indicato dalla scienza per evitare le conseguenze peggiori dell’emergenza climatica.

Il prezzo pagato dalla salute dei bambini

La Cina continentale, gli Stati Uniti e l’India sostengono i costi più elevati dell’inquinamento dell’aria causato dai combustibili fossili, pari rispettivamente a 900, 600 e 150 miliardi di dollari all’anno. Circa 40mila bambini al di sotto dei 5 anni, soprattutto nei Paesi a più basso reddito, muoiono ogni anno a causa dell’esposizione a PM2,5. E ogni anno circa 4 milioni di nuovi casi di asma tra bambini sono associati all’NO2, prodotto dai veicoli, le centrali elettriche e le industrie, con una stima di 16 milioni di bambini nel mondo affetti da questo sintomo a causa dall’inquinamento da NO2. Ancora, sono 1,8 miliardi i giorni di assenza dal lavoro per malattia associati  all’inquinamento dell’aria da PM2.5, con una perdita economica pari a circa 101 miliardi di dollari all’anno, riporta Adnkronos.

L’Italia non deve fare passi indietro sull’abbandono del carbone al 2025

“Occorre un contemporaneo cambio di paradigma della mobilità, puntando sul trasporto pubblico e su forme di mobilità meno impattanti – dichiara Minwoo Son, della Campagna Clean Air di Greenpeace Southeast Asia -. Dobbiamo considerare il costo reale dei combustibili fossili, non soltanto per il rapido peggioramento dell’emergenza climatica, ma anche per la salute delle persone”.

Anche l’Italia subisce pesanti conseguente dall’inquinamento atmosferico. “È essenziale che il governo italiano non faccia passi indietro sull’abbandono del carbone al 2025, come invece l’ultima versione del Pniec sembrerebbe suggerire – commenta Federico Spadini, della Campagna Trasporti di Greenpeace Italia -. E anche i grandi attori privati come banche e assicurazioni devono smettere di elargire finanziamenti ai combustibili fossili”.

Istat lancia l’allarme: quasi due milioni di giovani italiani “in sofferenza”

I numeri recentemente diffusi dall’Istat sono davvero preoccupanti e riguardano quella che dovrebbe essere la fascia più importate della popolazione, i giovani. Invece i ragazzi italiano non stanno bene, proprio per niente. In base a quanto rileva l’Istituto di Statistica, quasi la metà dei giovani di 18-34 anni (47,8%) evidenzia l’assenza di deprivazione nelle cinque dimensioni del benessere considerate (Salute; Lavoro, Istruzione e formazione; Benessere soggettivo; Coesione sociale; Territorio); un terzo (33,5%) ne ha solo una mentre il 18,7% (quasi 2 milioni di giovani) risulta multi-deprivato, cioè è deprivato in due o più dimensioni del benessere. I dati sono contenuti nel Rapporto sul Benessere equo e sostenibile apnea diffuso dall’Istat.

La condizione dei giovani è peggiorata dal 2012

La multi-deprivazione è più alta tra i giovani adulti di 25-34 anni (20,9% contro 15,2% dei giovani di 18-24 anni) e nel Mezzogiorno (23,9% contro 14,3% al Nord e 18,0% al Centro) -spiega l’Istat. Ancora più grave è l’indicatore che mette in luce come, rispetto al 2012, la condizione dei giovani sia ulteriormente peggiorata. Si registra in calo di quasi  4 punti percentuali la quota di quelli senza alcun tipo di disagio, sono invece aumentati sia i giovani deprivati per una sola dimensione (+2,6 punti percentuali), sia i multi-deprivati (+1,3 punti percentuali). Il peggioramento rispetto al 2012 ha riguardato la dimensione relativa alla Coesione sociale, che include le relazioni sociali e la partecipazione politica (da 17,6% nel 2012 a 24,9%), e le caratteristiche del territorio in cui si vive (da 12,9% a 15,7%); al contrario, migliorano le condizioni per le dimensioni Lavoro e Istruzione (da 22,2% nel 2012 a 19,6%) e Benessere soggettivo (da 11,5% a 7,6%), prosegue l’Istat.

Male il Nord e il Centro, stabile il Sud

Il peggioramento è avvenuto nel Nord e al Centro, dove la quota di giovani senza alcun disagio cala rispettivamente di 8,4 e 4,8 punti percentuali. Come riporta Ansa, nel Mezzogiorno, dove le difficoltà già nel 2012 erano maggiori, la situazione è sostanzialmente stabile (-0,8 punti percentuali). Tre quarti dei giovani multi-deprivati lo sono in due dimensioni, un quinto in tre e un residuale 5% di giovani in 4 o 5 dimensioni del benessere. Le dimensioni che più incidono sulla multi-deprivazione sono quelle relative alla Coesione sociale (il 69,5% dei multi-deprivati sono deprivati in questo dominio), al Lavoro, formazione e istruzione (il 58,1% dei multi-deprivati sono deprivati in questo dominio) e alla dimensione che descrive le caratteristiche del territorio nel quale vivono i giovani (47,3% dei multi-deprivati), conclude l’Istat.

Vola la cassa integrazione, +35,4% di ore in un anno

Aumentano le ore di cassa integrazione su base annua. Da quanto emerge dai dati rilasciati dall’Osservatorio Inps nel mese di ottobre di quest’anno il numero di ore di cassa integrazione autorizzate, tra ordinarie e straordinarie, è stato pari complessivamente a 25,8 milioni. Un numero di ore in aumento del 35,4% rispetto allo stesso mese del 2018, quando le ore ammontavano a 19,1 milioni. In particolare, a ottobre 2019 le ore di cassa integrazione ordinaria autorizzate sono state 12,3 milioni, mentre quelle straordinarie sono state 13,5 milioni.

Interventi ordinari, a ottobre 2019, +78,7% ore nel settore Industria, -2,4% Edilizia

Per quanto riguarda le ore di cassa integrazione ordinaria (12,3 milioni a ottobre 2019), l’Istituto rende noto che un anno prima, a ottobre 2018, le ore erano state 7,4 milioni. Di conseguenza, la variazione tendenziale risulta pari a +67,1%. Più in particolare, nel settore Industria la variazione tendenziale è pari a +78,7% e nel settore Edilizia pari a -2,4%. Inoltre, sempre nel mese di ottobre 2019, l’Inps rileva che la variazione congiunturale rispetto al mese precedente ha registrato un incremento pari al 118,3%.

Interventi straordinari, 6,2 milioni di ore autorizzate per solidarietà

Il numero di ore di cassa integrazione straordinaria autorizzate a ottobre 2019 è stato pari a 13,5 milioni, di cui 6,2 milioni per solidarietà. Registrando, quindi, un incremento pari al 16,0% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Nel 2018 le ore autorizzate ammontavano infatti a 11,6 milioni. Nel mese di ottobre 2019, rispetto al mese precedente, l’Osservatorio Inps ha registrato inoltre una variazione congiunturale pari al +17,1%, riferisce una notizia Adnkronos.

Gli interventi in deroga ammontano a circa 15 mila ore

Sempre nel mese di ottobre 2019 gli interventi in deroga sono stati pari a circa 15 mila ore autorizzate, registrando un decremento del -81,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. A ottobre 2018 erano state autorizzate circa 79 mila ore. La variazione congiunturale rispetto a settembre, nel mese di ottobre di quest’anno ha registrato quindi un decremento pari al -30,5%.

Inoltre, nel mese di settembre 2019 sono state presentate 223.368 domande di Naspi (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego), 6 di mobilità e 1.333 di DisColl (indennità mensile di disoccupazione per lavoratori non subordinati), per un totale di 224.707 domande, riporta QuiFinanza.

Il tutto, per  un incremento pari allo 0,7% rispetto al mese di settembre 2018, quando le domande presentate all’Istituto erano state 223.054.

Le imprese europee dicono sì all’economia circolare

Un sensibile miglioramento delle performance, l’accelerazione sul fronte dell’innovazione delle produzioni, e considerevoli risparmi per le aziende. Sono questi i benefici attesi dalle misure intraprese per la transizione verso una crescita sostenibile. Ovvero, che rispondano alle logiche dell’economia circolare. In Italia quasi il 25% dell’imprese industriali e terziarie ha abbracciato la green economy per superare la crisi e investire sul futuro, perché “uno sviluppo sostenibile non è solo una necessità dal punto di vista etico, sociale, ambientale – commenta Andrea Prete, vicepresidente vicario di Unioncamere -. Ma è anche un’opportunità importante di crescita per le imprese e, più in generale, per l’intero sistema economico”.

“Fare in modo che la sostenibilità si traduca in un’opportunità per le aziende”

“I risultati finora raggiunti – continua il presidente di Eurochambres, Christoph Leitl – mostrano che le Camere di commercio europee sono consapevoli delle proprie responsabilità e desiderose di contribuire alla soluzione delle sfide che ci attendono. Facciamo in modo che la sostenibilità si traduca in un’opportunità per le aziende e supportiamo le regioni resilienti e sostenibili”. Le realtà che hanno aderito mostrano infatti una migliore presenza sui mercati esteri, assumono di più e sono più competitive rispetto alle altre. E “le Camere di commercio italiane insieme alle altre europee – aggiunge Prete – possono fare ancora molto per favorire la crescita delle imprese sotto il segno della sostenibilità”.

Sostenibilità è sinonimo di competitività

Per l’Europa delle imprese, aumentare il riutilizzo, il riciclo, la riparazione e la trasformazione dei prodotti potrebbe ridurre la dipendenza delle risorse della UE, stimolare l’innovazione, contribuire a creare nuovi modelli commerciali, rilanciare posti di lavoro, crescita e competitività. Ma per garantire una transizione di successo verso un modello di economia circolare a livello europeo servirebbe anche abbattere le barriere alla circolazione delle materie prime secondarie, ridurre gli ostacoli normativi in materia di sostanze chimiche, prodotti e rifiuti, e promuovere e sostenere sistemi efficaci di raccolta, separazione e trattamento dei rifiuti al di fuori della UE, in maniera da stimolare la domanda di soluzioni circolari innovative Made in Europe.

I numeri dell’Italia green

Secondo le analisi di Unioncamere e Symbola il nostro Paese vanta una serie di primati sul fronte della green economy. Un’impresa extra-agricola su 4 negli ultimi 5 anni ha investito sulla sostenibilità e l’efficienza, ottenendo vantaggi competitivi in termini di export e innovazione. Inoltre, alla nostra economia green si deve anche il 13% degli occupati complessivi a livello nazionale.

L’Italia poi è leader europeo per dematerializzazione dell’economia: ogni kg di risorsa consumata genera 4 euro di Pil, contro una media Ue di 2,24 euro. E con il 76,9% di riciclo sulla totalità dei rifiuti è il numero uno in Europa.

Per quanto riguarda le emissioni di gas serra, con 569 tonnellate per ogni milione di euro prodotto l’agricoltura italiana produce il 46% di gas serra in meno della media Ue 28, e il minor numero di prodotti agroalimentari con residui di pesticidi (0,48%).

Giovane, innovativa e micro: ecco l’identikit delle 10.075 start up italiane

Il 31 marzo 2019 le start up innovative italiane hanno superato quota 10 mila, assestandosi precisamente a 10.075. Si tratta tipicamente di imprese giovani, sia perché sono tutte costituite da meno di 5 anni, come richiesto dalla norma, sia perché presentano almeno un socio di età inferiore a 35 anni nel 42,9% dei casi. Un dato nettamente superiore rispetto al 33,7% registrato tra tutte le neo-imprese non innovative. La conferma arriva dal nuovo report trimestrale del rapporto di monitoraggio dedicato alle start up, realizzato congiuntamente da Mise (Dg per la Politica Industriale) e InfoCamere, con la collaborazione di Unioncamere.

Micro imprese, ma dalle compagini sociali più ampie

Un’altra caratteristica delle start up innovative però è anche la loro appartenenza alla categoria delle micro-imprese. “Solo 4 start up su 10 (4.271) – si legge nel report – hanno almeno un dipendente, e anche queste ultime presentano in media non più di 3,1 addetti ciascuna, contro i 5,6 delle altre imprese di recente costituzione”. Per contro, le start up presentano compagini sociali più ampie, In media infatti ogni start up conta 4,5 soci, contro i 2,1 riscontrati tra le altre nuove imprese comparabili. E anche i dati di bilancio delle start up innovative lasciano intendere le ridotte dimensioni delle imprese iscritte: il fatturato medio, ad esempio, supera appena i 150 mila euro.

Una “popolazione” soggetta a un costante turnover

Va tuttavia tenuto conto del fatto che la popolazione delle start up innovative è soggetta a un turnover costante. A fronte del continuo flusso in entrata di nuove imprese di recente costituzione, si registra infatti la progressiva fuoriuscita per sopraggiunti limiti di età, pari appunto a 5 anni, o dimensionali,, con 5 milioni di fatturato annuo, delle imprese che presentano le performance economiche migliori.

Età media dell’innovazione: 3 anni e 11 mesi

Eclatante in questo senso, riporta una notizia Adnkronos, è l’età media delle 178 start up innovative che al 31 marzo 2019 riportano un fatturato annuo superiore a 1 milione di euro, che corrisponde a 3 anni e 11 mesi. Il valore complessivo espresso da questa nicchia, pari a ben 341 milioni di euro, rappresenta quasi il 40% del fatturato ascrivibile all’intera popolazione delle start up. Per contro, solo il 57% delle start up attualmente iscritte ha già depositato un bilancio. Un dato a riprova della prevalenza della fascia di imprese di recentissima costituzione.

Posto fisso addio, il lavoro flessibile è il nuovo sogno degli italiani

Fino a qualche tempo fa, le principali richieste di chi era alla ricerca di un nuovo lavoro riguardavano la sicurezza di poter contare su “un posto fisso”, salari alti, ferie pagate, e un ufficio tutto per sé. Negli ultimi anni però il mondo della ricerca e della selezione del personale è mutato, e oggi tra le principali esigenze dei lavoratori italiani vi è la flessibilità, un valore che fino a qualche anno fa riceveva ben poche preferenze. I dipendenti italiani quindi non hanno più dubbi: secondo lo studio condotto dalla Global Workspace Survey di IWG l’86% degli intervistati afferma di privilegiare un’offerta di lavoro che contempli la flessibilità di fronte a un’altra similare, ma senza quest’ultima caratteristica.

Le nuove tecnologie incentivano il lavoro flessibile

Ma cosa si intende con lavoro flessibile? “Con l’espressione ‘lavoro flessibile’ si indica la modalità di lavoro che permette ai dipendenti di adattare parzialmente la giornata lavorativa ai propri impegni personali”, spiega Carola Adami, Ceo di Adami & Associati, società di ricerca e selezione di personale qualificato. Godere di una certa flessibilità significa poter lavorare all’infuori dei tipici orari di lavoro, e lontano dalla sede aziendale, attività che inoltre vengono incentivate dalle nuove tecnologie.

Quali sono i vantaggi per le aziende?

Di certo la flessibilità è un aspetto che può migliorare concretamente la quotidianità dei lavoratori, ma quali sono i vantaggi per le aziende? “Un dipendente che può decidere come organizzare la propria giornata lavorativa è, in linea di massima, un dipendente più felice, e quindi più motivato e più produttivo”, continua Adami. Molte indagini dimostrano infatti che introdurre maggiore flessibilità a livello aziendale porta a un aumento della produzione e dei profitti. Ma secondo il 73% degli intervistati dallo studio Global Workspace Survey di IWG l’implementazione di politiche volte alla flessibilità viene rallentata  dalla mentalità tradizionalista dei vertici aziendali. A sorpresa, quindi, a frenare la flessibilità, sarebbero proprio le imprese.

Lavorare lontano dalla sede aziendale per almeno metà delle ore settimanali

Nonostante rispetto ad altri Paesi l’Italia continui a essere piuttosto perplessa nei confronti del lavoro flessibile, per il 70% degli intervistati il lavoro flessibile rappresenta la normalità, e più del 50% afferma di lavorare lontano dalla sede aziendale per almeno metà delle ore settimanali. Inoltre, l’86% dichiara di lavorare in aziende che hanno già adottato politiche di flessibilità o che sono in procinto di farlo. Il futuro, dunque, sembra tracciato. Le aziende che intendono attirare i migliori talenti accanto all’offerta di posizioni di prestigio e alla possibilità di avanzamento di carriera dovrebbero considerare anche la predisposizione di una sempre maggiore flessibilità.

Un lavoratore su cinque guadagna meno di 9 euro all’ora

La stima arriva dall’Inps: il 22% dei lavoratori dipendenti delle aziende private ha una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi, quasi un terzo al Sud e nelle isole, al Nord il 19%. Una “paga” pari alla soglia individuata da uno dei disegni di legge sul salario minimo in discussione al Senato.  Il 9% dei lavoratori, inoltre, è al di sotto degli 8 euro orari lordi, mentre il 40% prende meno di 10 euro lordi l’ora. Dei due disegni di legge sull’istituzione del salario minimo orario il primo prevede una misura a nove euro netti, il secondo a nove euro lordi. Secondo l’Istat l’aumento più significativo potrebbe coinvolgere i lavoratori dei servizi, gli under 29 anni e gli apprendisti.

Per il lavoro domestico salario orario inferiore a 9 euro

Quasi tutti i livelli di inquadramento del lavoro domestico hanno un salario orario inferiore a 9 euro. Lo rileva l’Inps in una audizione alla Commissione lavoro del Senato sul salario minimo, chiedendo nell’eventuale introduzione di una soglia di salario minimo di tenere in considerazione “le oggettive caratteristiche del settore anche allo scopo di evitare il rischio di pericolose involuzioni che possono portare all’espansione del lavoro irregolare”. Tra il 2012 e il 2017, riporta Ansa, il numero dei lavoratori regolari nel settore è infatti diminuito del 15% passando da 1,01 milioni a 864.526 unità.

Incremento di retribuzione per 2,9 milioni di lavoratori

Fissando la soglia del salario minimo a 9 euro lordi l’ora ci sarebbero 2,9 milioni di lavoratori che avrebbero un incremento medio annuo di retribuzione di 1.073 euro. L’Istat spiega che sarebbe coinvolto il 21% dei lavoratori dipendenti con un aumento stimato del monte salari complessivo di 3,2 miliardi.

Secondo il presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) Stefano Sacchi l’istituzione della misura potrebbe produrre un aumento per il 25% dei dipendenti delle imprese fino a dieci occupati, e del 3% di quelli delle imprese più grandi, riferisce il Manifesto.

Per le aziende l’introduzione del salario minimo comporterebbe “un aggravio di costo”

Un salario minimo lordo di nove euro produrrebbe un aumento di retribuzione del 14,6% con un costo di 4,1 miliardi di euro. Se, invece, la soglia fosse fissata a 9 euro netti l’aumento interesserebbe oltre la metà dei lavoratori attivi (il 52,6%) con un costo di 34,1 miliardi. Sul fronte dell’aziende invece, riporta la Repubblica, l’introduzione comporterebbe “un aggravio di costo che se non trasferito sui prezzi porterebbe a una compressione di circa l’1,2% del margine operativo lordo”.

Congiuntura positiva per industria e artigianato manifatturiero a Milano

Il 2018 si è chiuso in positivo per l’industria manifatturiera e l’artigianato di Milano, Monza Brianza e Lodi. Nel quarto trimestre dell’anno scorso le imprese milanesi registrano infatti ancora una crescita a livello tendenziale per produzione, fatturato e ordini. In particolare, a Milano bene la produzione (+2,6%) e accelerano gli ordini (+3,8%), Monza Brianza bene fatturato e ordini esteri (+6,2%), e a Lodi crescono gli ordini trainati dal mercato domestico (+9,6%). È quanto emerge da un’anticipazione dei dati dal Monitor congiunturale del quarto trimestre 2018 del Servizio Studi della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi, presentata in occasione della divulgazione dei risultati dell’analisi congiunturale dell’industria e dell’artigianato manifatturieri di Unioncamere Lombardia.

L’industria milanese tra ottobre e dicembre 2018

Nel quarto trimestre del 2018 la produzione industriale manifatturiera a Milano registra un +2,6% su base annua, mentre l’incremento del fatturato totale si attesta a un +1,8%, quello estero del +2,7%, e quello  interno del +1,3%.

Gli ordini totali registrano una variazione in un anno del +3,8%, trainati dalla domanda interna (+4%), ma anche da quella estera (+3,4%). Aspettative di tenuta per il primo trimestre 2019: il 59,9% degli operatori si attende infatti una stabilità della produzione nel prossimo trimestre.

L’industria di Monza e Brianza e Lodi

Nello stesso periodo la produzione industriale manifatturiera di Monza e Brianza registra una variazione tendenziale del +1,8%. Cresce il fatturato su base annua (+4,4%), trainato da un buon andamento, soprattutto, del fatturato estero (+9,9%) e del fatturato interno (+1,3%). Gli ordini totali crescono invece del +2,2%, e sempre su base annua l’espansione della domanda estera (+6,2%) contrasta con la dinamica degli ordini interni (0,0%). Nel quarto trimestre 2018 l’industria manifatturiera lodigiana registra per la produzione una variazione positiva del +3,3%, mentre la dinamica tendenziale degli ordini totali registra una crescita del +8,3%, in particolare la domanda interna si attesta a +9,6% e la domanda estera +5,2%. Il fatturato registra un +6,6% rispetto allo stesso periodo del 2017, quello interno +7,0%, e quello estero +5,7%.

L’artigianato manifatturiero a Milano, Monza Brianza e Lodi

Da ottobre a dicembre 2018 a Milano la produzione dell’artigianato manifatturiero cresce del +0,4% in un anno, mentre rallentano fatturato (-0,1%) e ordini (-2,1%). Buon andamento per  la Brianza, che segna un +0,7% per gli ordini totali su base annua, e un +1,9% sia per fatturato che per produzione.

A Lodi fatturato e produzione crescono entrambi del +0,7% in un anno. Va un po’ meno bene per gli ordini, che a Lodi rallentano del -0,1%.

Nel terzo trimestre 2018 cala l’occupazione

Rispetto al secondo trimestre del 2018 durante i tre mesi estivi dell’anno si osserva un rallentamento dell’occupazione. Gli effetti di trascinamento consentono comunque di registrare ancora una crescita a livello tendenziale, seppure in calo rispetto al recente passato. È quanto emerge dalla Nota congiunta di Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal, sulle tendenze dell’occupazione relativa al terzo trimestre 2018.

Le dinamiche del mercato del lavoro risultano allineate a quelle del Pil, e contraddistinte da un lieve calo congiunturale (-0,1%) dopo quattordici trimestri di espansione, e da un aumento su base annua (+0,7%), rallentato in confronto al periodo precedente.

Prosegue la crescita tendenziale dei lavoratori dipendenti

Il tasso di occupazione destagionalizzato risulta pari al 58,7%, stabile in confronto al trimestre precedente. L’indicatore supera di oltre tre punti il valore minimo del terzo trimestre 2013 (55,4%) tornando quindi ai livelli pre-crisi e sfiorando il livello massimo del secondo trimestre del 2008 (58,8%).

Prosegue la crescita tendenziale dell’occupazione dipendente, riporta Italpress, in termini sia di occupati (+0,5%, Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro) sia di posizioni lavorative riferite ai settori dell’industria e dei servizi (+2,1%, Istat, Rilevazione Oros).

Dopo l’aumento dello scorso trimestre, nella Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat il lavoro indipendente torna a diminuire a livello congiunturale (-28 mila occupati, -0,5%) mentre continua ad aumentare in termini tendenziali (+53 mila occupati, +1%).

Crescono le posizioni a tempo indeterminato

L’aumento congiunturale delle posizioni lavorative dipendenti riguarda le posizioni a tempo indeterminato (+42 mila) mentre quelle a tempo determinato si riducono lievemente (-27 mila). Se le prime continuano a crescere in virtù delle trasformazioni (+114 mila), le posizioni a termine si riducono per la prima volta dopo una crescita ininterrotta dal secondo trimestre 2016.

Secondo i dati tendenziali l’incidenza delle attivazioni a tempo determinato è pari all’80,3%, in aumento rispetto al 79,0% registrato nel terzo trimestre del 2017. In termini di saldi tra attivazioni e cessazioni su base annua l’aumento del lavoro dipendente a tempo determinato continua per il decimo trimestre consecutivo (+256 mila) mentre si registra la crescita del tempo indeterminato (+118 mila posizioni).

Tra i giovani aumentano i disoccupati

Tra i giovani di 15-34 anni torna a diminuire l’occupazione, in termini sia congiunturali sia tendenziali. Nel terzo trimestre 2018 prosegue poi l’aumento tendenziale del numero dei lavoratori a chiamata o intermittenti secondo la fonte Inps-Uniemens (+16 mila unità), anche se rallenta ulteriormente il tasso di crescita (+7,2% nel terzo trimestre 2018).

Analogamente prosegue l’aumento tendenziale del numero dei lavoratori in somministrazione, mentre il numero dei lavoratori impiegati con il Contratto di Prestazione Occasionale e quelli pagati con i titoli del Libretto Famiglia, hanno raggiunto rispettivamente le 20 mila e le 7 mila unità nel terzo trimestre 2018.