Cala l’Indice dei Prezzi Tecnologici, ma non a livello tendenziale

Dopo una crescita di quattro mesi consecutivi dell’Indice dei Prezzi Tecnologici (IPT), nel mese di maggio 2021 si evidenzia un calo fisiologico. Negli ultimi 5 anni soltanto nel periodo gennaio-maggio 2017 si è registrato un aumento congiunturale positivo dell’indice IPT per 5 mesi consecutivi. Le dinamiche dei prezzi di maggio 2021 appaiono decisamente influenzate, sia in positivo sia in negativo, da fenomeni contrapposti legati alla stagionalità dei prodotti dei diversi settori. Di fatto a maggio 2021 l’IPT arriva a 103,65 punti, registrando una contrazione di -0,60 punti rispetto ad aprile, mentre a livello tendenziale è in crescita di +0,90 punti rispetto a maggio 2020, confermando una tendenza positiva che dura da 12 mesi consecutivi, cioè da giugno 2020.

I settori Comunicazione e Entertainment confermano la regressione congiunturale

L’IPT è un indicatore sintetico, elaborato dall’istituto di ricerche di mercato QBerg. L’indice misura la variazione nel tempo dei prezzi di 16 categorie e 54 sottocategorie di prodotti tecnologici, acquistabili dai consumatori italiani all’interno di punti vendita fisici di tre canali, catene di Elettronica, gruppi di acquisto di Elettronica e ipermarket. In negativo, l’indice IPT di maggio 2021 è stato influenzato dalla categoria del Trattamento Aria/Acqua, che alla riduzione dei prezzi dei prodotti per Riscaldamento e Scaldabagni, non ha visto corrispondere un aumento dei prezzi dei Condizionatori nonostante il periodo pre-estivo L’influenza negativa è data anche dai settori Comunicazione e Entertainment, che confermano una complessiva regressione congiunturale dei prezzi dei prodotti di questi comparti. La regressione è dovuta all’introduzione di prodotti con un minore costo, dalla crisi di alcune famiglie di prodotti, come i Wearable, e dal maggior tempo libero dei consumatori passato all’aperto, che in parte contribuisce a fa perdere l’interesse per l’Home Entertainment.

Incremento dei prezzi per i grandi elettrodomestici

Al contrario, riscontri positivi per l’indice IPT di maggio 2021 si riscontrano nei prodotti della famiglia GED, ovvero dei grandi elettrodomestici, che nel mese di maggio, uno dei mesi più importanti dell’anno per le vendite, hanno incrementato i loro prezzi. In generale, gli aumenti tendenziali dei prezzi di alcune famiglie di prodotti fanno prevedere che nei prossimi mesi potranno esserci evoluzioni sull’andamento complessivo dei prezzi dei prodotti tecnologici.

Settore Informatico, andamento ambivalente  

Quanto al settore Informatico, registra aumenti tendenziali importanti di prezzi, soprattutto per i Monitor (+11,72 punti rispetto a maggio 2020), e sembra avere contenuto la diminuzione dei prezzi a livello congiunturale, a eccezione dei Tablet e in parte anche dei Notebook. Monitor, TV Flat e Telefoni Cellulari sono in forte crescita tendenziale dei prezzi, e dato che i chip stanno subendo uno shortage a livello mondiale, è ipotizzabile che subiranno ulteriori aumenti di prezzo nei prossimi mesi. Più in particolare, i TV Flat, pur sostanzialmente fermi a livello congiunturale (-0,04 punti) evidenziano forti incrementi di prezzi rispetto a maggio 2020 (+15,02 punti), mentre i Telefoni Cellulari segnano +6,42 punti rispetto a maggio 2020, anche se con prezzi in diminuzione rispetto ad aprile 2021 (-1,01 punti).

Vivere al piano terra: consigli per proteggersi dai ladri

Chi vive ai piani bassi di un edificio, o direttamente al piano terra, conosce bene le preoccupazioni legate alla facilità con la quale eventuali malintenzionati possono avvicinarsi alla porta di ingresso principale di casa, la quale spesso non si trova all’interno di una vano scala ma al contrario dà sull’esterno e presenta davanti un terrazzo o piccolo giardino.

Proprio questo tipo di abitazioni sono maggiormente interessate dal pericolo di incursioni da parte di ladri e malintenzionati, dato che sono facilmente raggiungibili semplicemente scavalcando una piccola ringhiera o cancelletto che solitamente delimita l’area che precede la zona in cui si trova la porta d’ingresso.

Una soluzione efficace e definitiva

Queste aperture vanno messe in sicurezza in quanto rappresentano sicuramente un anello debole che è molto più esposto ad attacchi e tentativi di effrazione rispetto quanto avviene nei piani più alti, ad esempio.  

La soluzione più efficace e duratura in questi casi è quella di provvedere a far installare delle inferriate apribili in ferro, le quali rappresentano una barriera particolarmente difficile da superare quando chiuse.

Di giorno infatti, questo tipo di inferriate può essere lasciato tranquillamente aperto, mentre la notte si possono chiudere consentendo di dormire sonni tranquilli in quanto veramente resistenti ed in grado di far desistere qualsiasi malintenzionato.

La tranquillità di poter andare in vacanza senza pensieri

Inoltre si tratta di un sistema che garantisce tutta la tranquillità necessaria ad esempio nel momento in cui si va in vacanza e ci si assenta da casa per diversi giorni, dato che di fatto rappresentano una barriera difficile da superare e che impedisce a chi non è autorizzato di poter accedere in casa, facendo in modo che il tuo appartamento possa essere perfettamente protetto anche quando sei lontano e vuoi avere la certezza che tutti i tuoi beni e oggetti cui sei più affezionato possano essere al sicuro.

Cresce la fiducia degli italiani nel settore alimentare

Tre punti in più rispetto al 2020: è quanto guadagnato quest’anno dalla fiducia degli italiani nel settore alimentare. In controtendenza rispetto alla media globale, in calo di 2 punti, la fiducia dei nostri connazionali nel settore alimentare conquista addirittura il primato assoluto tra i Paesi europei. L’Italia è infatti davanti a Paesi di solida tradizione in campo alimentare, come Francia e Spagna, e a potenze industriali come Stati Uniti e Germania. A confermarlo è l’Edelman Trust Barometer, l’indagine globale sul tema della fiducia realizzata in 28 Paesi su un campione di 33.000 persone. Con il 65% di campione fiducioso, il settore alimentare si piazza dopo tech e salute, al terzo posto tra i 15 settori merceologici analizzati, e riscuote più fiducia rispetto al business in generale (59%).

I più fiduciosi sono gli over 55

In Italia la fascia d’età che ripone più fiducia nel settore alimentare è quella over 55, con il 68%, in crescita di 6 punti rispetto allo scorso anno. Anche in questo caso, in controtendenza rispetto alla media globale, che cala di un punto, nella fascia d’età 35-54 la crescita in termini di fiducia verso i produttori di cibi e bevande è di 11 punti. L’Edelman Trust Barometer analizza anche la fiducia in alcuni sottosettori del food and beverage, dove in Italia, a guadagnare terreno sono i produttori di cibi e bevande (63%) e la rete di distribuzione alimentare (70%), che guadagnano rispettivamente 4 e 3 punti.

Birra, superalcolici, fast food e additivi perdono punti

Perdono due punti i produttori di birra e superalcolici, che arrivano al 59% di fiducia, dato comunque migliore rispetto a quello globale, che arriva al 54%, in calo di 6 punti. In calo anche i fast food, che con il 46% perdono un punto, così come i produttori di additivi alimentari, che con il 36% perdono 4 punti. Entrambi non raggiungono la soglia della fiducia. Il Trust Barometer ha messo anche in evidenza l’elevato grado di fiducia riposto nel proprio datore di lavoro. Questo dato, riporta Italpress, è ancora più evidente per coloro che operano nel settore food & beverage, con il 76%, sette punti in più rispetto allo scorso anno, record assoluto in termini di crescita tra tutti i 15 settori analizzati dalla ricerca.

Trasparenza e chiarezza assumono valore strategico nelle scelte dei consumatori

“I dati hanno evidenziato il buon livello di fiducia degli italiani verso il settore alimentare e sottolineato cinque aree di miglioramento: innovazione, inclusione, informazione, incentivi e investimenti – afferma Rossella Camaggio, senior vice president e responsabile settore food&beverage di Edelman Italia -. Inoltre, la trasparenza e la chiarezza nelle informazioni assumono valore sempre più strategico nelle scelte dei consumatori. Ma è anche necessario favorire, attraverso incentivi, l’adozione di sistemi tecnologici in grado di limitare l’impatto ambientale”.

Agroalimentare, nell’anno del Covid export da record

Nell’anno del Covid-19, il settore agroalimentare italiano si è dimostrato un pilastro dell’economia del Paese. Complessivamente ha generato un valore aggiunto di 64,1 miliardi di euro, di cui 31,2 provenienti dal settore cibo e bevande (-1,8%), e 32,9 dal comparto agricolo. L’export nel 2020 poi è stato da record, con 46,1 miliardi di euro fatturati e una crescita del +1,8% sul 2019. Si tratta di alcune evidenze emerse durante la presentazione del quinto Forum Food & Beverage, che si terrà il 4 e 5 giugno a Bormio (Sondrio), e che avrà come parole chiave alimentazione, salute e sport.

Un settore che in Italia incide sul Pil per il 3,8%

Le analisi di The European House – Ambrosetti in vista del Forum mostrano come la performance dell’industria agroalimentare italiana sia stata migliore rispetto al Pil nazionale (-8,9%).

“L’Italia è il secondo Paese in Europa per incidenza dell’agroalimentare sul Pil (3,8%), preceduto solo dalla Spagna (4%), e sopra Francia (3%) e Germania (2,1%) – afferma Valerio De Molli, managing partner & ceo di The European House – Ambrosetti -. Col valore aggiunto generato nel 2020 – aggiunge il ceo – l’agroalimentare si conferma al primo posto tra le ‘4A’ del Made in Italy, 1,9 volte l’automazione, 2,8 volte l’arredamento e 3,2 volte l’abbigliamento”.

Sono le bevande la categoria più venduta all’estero

Nell’export le bevande sono la categoria più venduta, e generano oltre un quinto del fatturato (20,6%), con Germania, Francia e Usa i mercati di maggiore approdo. Rimane però aperto il nodo Brexit, su cui al Forum è atteso un approfondimento.

“Parliamo di un settore lasciato a sé stesso – rileva Francesco Mutti, amministratore delegato di Mutti – e partiamo in ritardo rispetto alle potenzialità che avrebbe”. Ed evidenziando quelli che ritiene elementi mancanti all’Italia per scalare il settore food, Mutti cita, ad esempio, “la ridotta dimensione aziendale”.

Stefano Marini, amministratore delegato di Sanpellegrino (gruppo Nestlè), in riferimento al 2020 sottolinea “le difficoltà dell’Italia, in particolare dove l’Horeca pesa molto”.

L’etichetta “a semaforo” mette a rischio il Made in Italy

Stefano Berni, direttore generale del consorzio di tutela del Grana Padano, puntualizza come “l’etichetta a semaforo sponsorizzata dalle grandi multinazionali metta a rischio il Made in Italy agroalimentare”.

Dal presidente della Lombardia, Attilio Fontana, arriva l’auspicio che il governo possa contribuire al lavoro in corso per la salvaguardia dei prodotti alimentari italiani e la tutela della loro unicità. I buoni risultati dell’agroalimentare italiano, riporta Ansa, lasciano infatti ancora un margine di miglioramento sulla tutela dell’unicità dei prodotti.

Brand Reputation, cosa è e perché è importante

Mai come ora, visto che la pandemia ha “traghettato” online ulteriori fasce di consumatori e potenziali tali, la brand reputation è un aspetto essenziale a cui le aziende – specie quelle che hanno un rapporto diretto con il cliente –  non possono e non devono sottrarsi. Ma, in parole semplici, cosa è la brand reputation? Come si evince dalla definizione, si tratta della reputazione del marchio. In realtà, è una questione molto più complessa, che riguarda tutti gli aspetti di un’impresa: la comunicazione, le sue politiche sociali, il trattamento riservato ai dipendenti, i commenti sui social e sui siti, la capacità di rispondere ai bisogni degli utenti, ma anche il posizionamento sui motori di ricerca e le recensioni sui servizi e i prodotti. Insomma, un insieme di fattori non sempre facile da gestire e controllare. Eppure, in mercati ogni giorno più dinamici, costruirsi una solida brand reputation dovrebbe essere un imperativo per le aziende che vogliono restare competitive.

Cosa si dice sul web?

La gestione della band reputation è oggi una priorità per marchi e imprese. Il comportamento dei consumatori sta cambiando, questi sono sempre più attivi sulla rete – scrivono e parlano dei brand più diversi – e prima che succeda l’irreparabile è opportuno che sia l’azienda stessa ad assumere il controllo. Una reputazione positiva del marchio online ispirerà fiducia da parte dei clienti, guiderà la crescita dei profitti e aumenterà la fidelizzazione. Una reputazione negativa, invece, farà allontanare i potenziali clienti e disamorare quelli esistenti. Secondo un recente studio inglese, infatti, il 93% degli intervistati ha dichiarato che le recensioni online influiscono sulle decisioni di acquisto. Al giorno d’oggi, le persone si fidano delle recensioni online scritte da altri clienti, presumendo che siano reali e attendibili.

Come fare per gestire la propria brand reputation?

Come dicevamo, è un lavoro complesso, e infatti esistono diverse realtà professionali che si occupano proprio della “costruzione” di una solida reputazione on line. Innanzitutto, è importante che il dominio sia in cima alle ricerche di Google, un’operazione che si concretizza attraverso una strategia SEO mirata e a lungo termine. Le imprese che dominano le classifiche di ricerca gestiscono la propria reputazione sul web utilizzando social media, PR, blog per promuovere la propria azienda come leader nei rispettivi settori. I social media, inoltre, hanno attualmente un ruolo vitale nella gestione della brand reputation: tracciare, monitorare e rispondere a recensioni e commenti sia positivi sia negativi dovrebbe essere un imperativo. Allo stesso modo, occorre tenere sotto controllo e rispondere, se è il caso, alle recensioni on line effettuando ricerche regolari in base al proprio marchio o alla propria attività su tutte le piattaforme, così da vedere cosa scrivono gli utenti. Altri aspetti importantissimi sono il content marketing, ovvero il fornire agli utenti contenuti di valore, che siano post, articoli, video, immagini, e naturalmente il servizio clienti. Quest’ultimo, che è realmente il contatto diretto fra l’azienda e il cliente, dovrebbe essere impeccabile e comunque sempre orientato al problem solving.

Ripresa post-Covid frenata dal paradosso del mercato del lavoro

L’alto tasso di disoccupazione unito alla difficoltà di reperire i posti di lavoro vacanti rischia di frenare la ripresa post-pandemia. Si tratta di un paradosso del mercato del lavoro italiano, che dal 2004 al 2019 ha subito un progressivo peggioramento. Il ‘mismatch’ tra domanda e offerta di lavoro, cioè la mancata corrispondenza tra i requisiti richiesti dalle aziende e le competenze dei lavoratori, in 15 anni ha visto il tasso di disoccupazione passare dal 6% a oltre il 10%, e le difficoltà di reperimento salire a livelli record. Un divario tra domanda e offerta sempre più profondo e complesso, confermato dal rapporto del Randstad Research dal titolo Posti vacanti e disoccupazione tra passato e futuro.

A fine 2019 la curva di Beveridge mostra il punto minimo di efficienza

Nel periodo considerato il report evidenzia 140.000 contabili e 145.000 muratori occupati in meno, 144.000 magazzinieri e 77.000 camerieri in più. Sono aumentate, ma solo in una certa misura, alcune professioni chiave, come specialisti in marketing (+92.000), analisti software (+86.000) e medici (+30.000), ma non si è risolta la ragione principale della mancata corrispondenza, ovvero, la carenza nella preparazione tecnico-scientifica e nell’istruzione di base, al primo posto tra gli ostacoli al reperimento di figure professionali da parte delle imprese. E a fine 2019, la cosiddetta ‘curva di Beveridge’ (il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione) ha mostrato il punto minimo dell’efficienza del mercato del lavoro italiano, riporta Labitalia.

Nel 2020 blocco dei licenziamenti e aumento degli inattivi riducono il mismatch

Nel 2020 il mismatch sembrerebbe essersi ridotto, ma non per una rinnovata efficienza, quanto per l’effetto combinato del blocco dei licenziamenti e dell’aumento degli inattivi, con minori posti vacanti per il ridimensionamento delle attività dei datori di lavoro. Uno scenario che evidenzia il rischio di frenare la ripresa post-Covid, se un rialzo della disoccupazione a seguito dello sblocco dei licenziamenti dovesse essere accompagnato da un aumento dei posti di lavoro vacanti. Con la crisi Covid-19 la curva di Beveridge ha evidenziato infatti una contrazione di posti vacanti a parità di occupazione. Il tasso di disoccupazione da gennaio 2020 a novembre 2020 è diminuito dello 0,72%, passando dal 9,59% all’8,87%, mentre il tasso di inattività nello stesso periodo è aumentato dell’1,1% passando dal 34,74% al 35,85%.

La sfida del matching tra domanda e offerta si vince con la formazione

“Crediamo che la persistenza della difficoltà di reperimento per alcune figure professionali abbia rappresentato un ostacolo alla crescita italiana in passato – afferma Daniele Fano, coordinatore del comitato scientifico del Randstad Research -. In questo senso, i piani di rilancio europei 2021-27 possono rappresentare un ‘Piano Marshall’ per il lavoro: la sfida italiana per il matching tra domanda e offerta si vince con un radicale miglioramento dell’istruzione e della formazione, con l’aumento del tasso di partecipazione al lavoro delle donne, dei giovani e di tutti i cittadini in età adulta”.

Lavoratori in smart working a rischio workaholism

Se i lavoratori autonomi sono stati i più penalizzati dall’epidemia, in particolare quelli di settori come spettacolo, cultura, sport e turismo, altri sono riusciti a riadattare il proprio lavoro alle nuove disposizioni, soprattutto attraverso forme di smart working. Ci sono però stati molti licenziamenti e mancati rinnovi dei contratti a termine, e molti lavoratori hanno dovuto utilizzare ferie e congedi per ammortizzare il periodo di pausa lavorativa forzata.

Sebbene il lavoro da casa abbia portato numerosi vantaggi, dalla riduzione di tempi e costi del pendolarismo all’aumento dell’autonomia lavorativa e la maggiore flessibilità di orari e di spazi, non mancano gli aspetti negativi, legati alla salute, alla privacy e alla gestione dei propri ritmi quotidiani.

Diminuisce lo spazio fisico e psicologico tra vita privata e lavorativa

Ed è proprio la maggiore flessibilità di orari che ha portato a conseguenze negative sulla vita delle persone: stare a casa anche per lavoro ha favorito una condizione di connessione perenne. In molti casi è risultato difficile riuscire a fare una netta distinzione fra le ore dedicate al lavoro e quelle per il tempo libero. I confini fra la vita personale e quella lavorativa si sono assottigliati. Alcune analisi statistiche hanno rilevato come questo nuovo assetto lavorativo tenda perciò a diminuire lo spazio fisico e psicologico tra vita privata e vita lavorativa.

La dipendenza da lavoro

Tra gli effetti negativi di questa situazione rientra poi l’aumento dello stress da eccesso di lavoro. Molti lavoratori hanno lavorato almeno un’ora in più al giorno, iniziando le giornate in anticipo per terminarle più tardi, spinti a essere disponibili online più a lungo del normale.

I sensi di colpa e altri sentimenti di ansia e stress, insieme alla difficoltà di staccare la spina a fine giornata, possono essere segnali di rischio di sviluppo della sindrome da workaholism.

Il termine deriva dall’unione di work (lavoro) e alcoholism (alcolismo), e nonostante la sindrome venga definita anche come una forma di dipendenza, in questo caso da lavoro, non si riferisce al ricorso a un elemento esterno per l’ottenimento di una gratificazione, come lo è l’uso di sostanze.

Necessario favorire il benessere psicologico

Recentemente si è osservato che la tecnologia ha reso il fenomeno del workaholism sempre più diffuso, anche perché culturalmente essere “occupati” è una sorta di distintivo d’onore.

In una prospettiva simile diventa importante promuovere e monitorare il benessere psicologico del lavoratore, facendo attenzione alle sue esigenze primarie. Esistono strategie utili a favorire il benessere psicologico di chi lavora attraverso un’adeguata distribuzione del carico lavorativo e monitorando le reazioni correlate al disagio, cercando di identificare i segni di malessere fin dalla loro insorgenza. È quindi importante favorire una buona comunicazione tra colleghi e tra superiori, per far comprendere al singolo individuo che può contare sul sostegno e l’aiuto di cui ha bisogno.

La pandemia cambia il lavoro, e richiede più flessibilità e diversa gestione Hr

La pandemia porta nuove priorità per le aziende, a cui richiede maggiore flessibilità, nuovi modelli di gestione delle risorse umane e una rinnovata attenzione al benessere dei dipendenti da un punto di vista psico-fisico. Da un’indagine condotta da Littler, lo studio di diritto del lavoro, una delle conseguenze della pandemia è la maggiore fiducia nel remote working, con il 41% dei 750 responsabili Hr europei intervistati che dichiara di adeguare le proprie politiche con una forza lavoro operante quasi completamente da remoto. Il 57%, poi, dichiara di avere offerto orari di lavoro più flessibili, mentre il 51% di avere sollecitato un feedback frequente sulla risposta della propria organizzazione alla pandemia.

Lo smart working rimarrà, ma non per tutti

“La situazione normativa è ancora confusa, e necessita di regole e politiche più chiare, necessarie per cogliere i benefici dello smart working osservando la legge e tutelando al contempo il benessere psico-fisico dei propri dipendenti”, commentano Carlo Majer ed Edgardo Ratti, alla guida di Littler in Italia. Prima della pandemia, lo smart working faticava a imporsi per la paura dell’impatto sulla produttività e sulla cultura aziendale. Ora che si è diffuso rimarrà, ma non per tutti o per ogni giorno lavorativo.

“Oltre il 60% delle attività lavorative nelle economie sviluppate non può essere remotizzata – commenta Alessandro Magrini, Hr Director in Finix Technology Solutions – poiché richiede almeno una presenza fisica, come stare su una linea di assemblaggio, gestire il magazzino, aiutare i clienti in un negozio o fornire servizi sanitari”.

Modificare i flussi lavorativi e migliorare i processi con la trasformazione digitale

Adottare lo smart working richiede anche una trasformazione digitale all’interno delle aziende per modificare i flussi lavorativi e migliorare i processi, nell’ottica di renderli più rapidi e sicuri.

“Il contesto attuale può offrire una grande leva per operare una progressiva digitalizzazione all’interno delle aziende – afferma Mario Messuri, General Manager di Jaggaer in Italia e vp South Europe -. Il Covid-19 ha evidenziato la fragilità dei sistemi e dei processi attuali nel garantire continuità del servizio e rispetto dei tempi”, considerando la forte dipendenza da mercati come quello asiatico per gli approvvigionamenti necessari alle produzioni.

Adattarsi mantenendo invariati gli standard produttivi

“L’adozione di strumenti tecnologici innovativi negli ambienti lavorativi – sottolinea Messuri – può consentire di raggiungere quel grado di flessibilità necessario ad adattarsi a situazioni diverse mantenendo invariati gli standard produttivi”. Non va sottovalutato il tema della rendicontazione amministrativa e del passaggio di carta, come scontrini, ricevute e soldi. “È ormai troppo rischioso continuare a maneggiare ricevute cartacee, gestendo passaggi di banconote per anticipi cassa e resti – commenta Giuseppe Di Marco, Country Manager di Soldo in Italia – uno studio condotto dal Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization afferma che su queste superfici il virus dura fino a 24 giorni”.

L’importanza di limitare gli accessi in azienda

Impedire l’accesso ai non autorizzati all’interno dei locali nei quali viene svolta un’attività lavorativa è la priorità per tantissime realtà aziendali ed imprese. Le ragioni possono essere le più disparate in base al settore in cui si opera: solitamente, si ha bisogno di limitare gli accessi ai soli autorizzati ad esempio per evitare che la concorrenza possa spiare i propri metodi di lavoro o direttamente copiare i prodotti. In altri casi invece, limitare gli accessi diventa necessario per evitare che eventuali malintenzionati possano in qualche modo danneggiare quelli che sono i beni dell’azienda oppure rubare qualcosa, il che costituisce chiaramente un danno  economico non indifferente.

I badge per evitare code in ingresso e uscita

Qualsiasi siano i motivi che spingono ad adottare soluzioni di questo tipo, limitare gli accessi in azienda assume un ruolo certamente non secondario, e chiaramente questo tipo di sistema va implementato in maniera tale da non creare code agli ingressi. Se il metodo di riconoscimento non è rapido infatti, si rischia ogni giorno di avere una coda di dipendenti in ingresso e in uscita che attendono   di essere riconosciuti e dunque di poter entrare o uscire dalla sede. In questo caso, i badge timbratura commercializzati da Cotini srl rappresentano la soluzione certamente più efficace e avanzata tecnologicamente. Grazie ai badge di prossimità ad esempio, ciascun dipendente deve semplicemente avvicinare il badge personale al lettore per far sì che il proprio ingresso o uscita possano essere registrati e dunque che si abbia l’autorizzazione a varcare la soglia.

Un prodotto personalizzabile anche con la fotografia del dipendente

Ciascun badge inoltre, può essere personalizzato inserendo il logo dell’azienda o anche la fotografia del dipendente ed il suo codice identificativo, così da consentire a tutti di poter essere identificati in qualsiasi momento e dunque farsi riconoscere dal personale preposto. Questa soluzione è particolarmente conveniente nel caso di aziende con decine o centinaia di dipendenti, ai quali si vuole garantire un rapido accesso o uscita dai locali senza creare code ma dando a tutti la sicurezza di sapere che le persone non autorizzate non hanno alcuna possibilità di entrare all’interno della sede. 

Smart working e disparità di genere. Il lavoro a casa va ripensato

Prima dell’emergenza Covid in Italia lavoravano da remoto circa 500 mila persone. Ma in queste settimane di lockdown si stimano siano state più di 8 milioni. Se il 60% dei lavoratori vuole proseguire con lo smart working anche dopo la fase di emergenza il 22% preferisce interrompere questa esperienza, e le donne sono le meno convinte. Per loro, infatti, lo smart working è più pesante, alienante, stressante e porta all’aumento dei carichi familiari. Secondo l’indagine della Cgil/Fondazione Di Vittorio sullo Smart working, però, quello sperimentato durante l’emergenza non è lo smart working ex Legge n.81/2017, né telelavoro, ma nella maggior parte dei casi del mero trasferimento a casa dell’attività svolta in ufficio. Si tratta, in pratica, di un home working.

L’82% ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza

L’82% degli intervistati ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza, e di questi il 31,5% avrebbe desiderato farlo anche prima. Il 18% invece ha cominciato prima, l’8% per scelta personale, soprattutto gli uomini (+5% rispetto alle donne) e nel settore privato (+4% rispetto al pubblico). Nel 5% dei casi ciò è avvenuto per scelta del datore, e in un altro 5% per esigenze di conciliazione. Nel 37% dei casi, lo smart working è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro, e nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro, mentre nel 27% in modo negoziato attraverso intervento del sindacato, riporta Askanews.

Un semplice trasferimento a casa dell’attività svolta in ufficio

Dall’indagine risulta inoltre che la stragrande maggioranza è “precipitata” nel lavoro smart senza alcuna riflessione su organizzazione del lavoro e degli spazi e senza adeguata preparazione, con evidenti differenze di genere. Dalle 6.170 persone intervistate emerge, infatti, che si è assistito a un semplice trasferimento a casa dell’attività svolta fino a qualche giorno prima in ufficio. Il 45% dei casi ha dichiarato che il lavoro non è cambiato, è cambiato parzialmente per il 32%, e solo totalmente per il 23%. Inoltre, nel lavorare da casa si presta poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione (56%), gli spazi sono stati ricavati (50%), oppure si assiste a un nomadismo casalingo (19%).

Per essere un’esperienza positiva va contrattato con i sindacati

“Lo smart working non può essere una forma di conciliazione – commenta Susanna Camusso, la responsabile Politiche di genere Cgil -. Le donne sono più penalizzate e discriminate, sia sul fronte relazionale sia su quello prettamente professionale. Servono regole per renderlo un lavoro effettivamente smart e non una trasposizione di un lavoro fordista dentro le mura di casa”.

Insomma, “dopo questa esperienza dobbiamo porci il problema di fare in modo che nei nuovi contratti collettivi e aziendali ci siano elementi che permettano di affrontare i bisogni di chi lavora in smart working”, aggiunge il segretario generale Cgil Maurizio Landini. Lo smart working per essere un’esperienza soddisfacente per lavoratrici e lavoratori va organizzato e contrattato con le organizzazioni sindacali.